venerdì 27 maggio 2011

IL MAGO BAOL RITROVA



In cui il mago baol ritrova qualcosa che aveva perduto e l'avventura diventa tosta

 
Bisogna vedere i nemici che si hanno,
non bisogna vedere più nemici di quanti se ne hanno.
(Baolian, libro II, 340,341)

Male non fare, paura non avere
(A. Hitler)


Siamo discesi per milioni di gradini di ferro, cosi mi è sembrato, e i nostri passi rimbombavano e si moltiplicavano, fino a riempire l'aria di un metallico tam-tam. La mole di René la Mucca mi precedeva ondeggiando. Fin quando il frastuono cessò e camminammo furtivi su un pavimento di linoleum. Ci accolse la luce artificiale di un giardino sotterraneo, una giungla di piante vere e sintetiche.

C'era odore di limone e azoto. Torsoloni di antiquariato stavano in agguato quà e là, verginone tronche, guerrieri invalidi, colonne mozze. Piacevoli bar-terrazza, ghiaietto, vetri fumé e dappertutto cascatelle d'acqua, pisciatine nascoste, zampilli illuminati. Una musica di vibrafono nell'aria. Un reparto sotterraneo per il relax dirigenziale. Un cielo stellato di perspex ci sovrastava.

- Il nostro contatto è qui - disse René la Mucca nascondendo una minima parte di sé dietro una palma.
- Nostro ? -
- Sono anch'io del gioco, baol, non fare il furbo. Ti devo accompagnare dal tuo Alice. È il mio compito. Poi ti arrangerai.
- C'è un piccolo problema, se dobbiamo circolare qui - dissi - sembriamo dei dirigenti?
René la Mucca esaminò con tristezza il completino domopak dalmatato che pure gli stava cosi bene.
- Non và, eh?
- Ci penso io - dissi.
Da un bar usciva un giovane managero con un vestito verde dollaro e un tesserino da Vip all'occhiello. Splendeva nel suo volto quell'intelligenza cosi libera da pregiudizi e barriere ideologiche da sembrare molto simile all'ottundimento. Lo affrontai. Gli premetti un dito sulla fronte e dissi:
- Le piacerebbe occupare la stanza del direttore generale?
- Certo che mi piacerebbe - balbettò il managero, ma....
- Niente "ma". Risponda: le piacerebbe stare dietro la suprema scrivania?
- Certo che si.
- Ebbene - dissi fissandolo in modo ipnoseduttivo col mio sguardo baol - cerchi di concentrarsi: cos'è che sta sempre dietro la scrivania, dentro la stanza del direttore generale? Glielo dico io: il ficus.
- Certo - rispose quello- il ficus, la sua pianta preferita.
- Si. Di giorno e di notte il ficus occupa quella stanza e domina la situazione. Tutti i giorni il direttore generale lo annaffia personalmente. Il ficus conosce tutti i suoi segreti. Partecipa alle sue gioie ma è immune alle sue ire. Mai un ficus è stato licenziato. I direttori passano, i ficus restano. Quale carriera è più felice, più vicina ai vertici aziendali e nel contempo priva di rischi e responsabilità?
- Voglio essere un ficus - disse il managero con gli occhi lucidi.
- Perfetto. Ora mi ascolti bene: lei è uno splendido esemplare di ficus lanceolatus. Ora si spoglierà dei suoi vestiti e si nasconderà in quel giardino tra i suoi verdi simili. Ne studierà le abitudini, la funzione clorofillare, il ricambio delle foglie, imparerà a sorbire acqua come si conviene a un ficus professionista. Dopo il corso di aggiornamento provvederemo a trasferirla nell'ufficio del direttore generale.
- Sono un ficus - proclamò il managero con un bagliore botanico nello sguardo.
Si spogliò fulmineo e si infilò tra le piante, verso la sua nuova vita. Indossai il suo vestito: ora ero un dirigente di primo livello e René la Mucca la mia guardia del corpo.
- E adesso dove si và? - chiesi.
- A una festa, capo - disse René, guardandomi ammirato.

Era una tranquilla festa di Regime. Nel mio nuovo ruolo di managero mi addentrai nella folla di gerarchetti e clarette, mentre camerieri veloci come pattinatori impollinavano di champagne ogni angolo e l'orchestra suonava "Love in Ibiza". Bell'ambientino! Ricordai subito ciò che diceva il mio maestro baol: 
Il vero baol non si annoia mai
tutt'al più si addormenta.

 
(Quanta saggezza nei nostri antichi testi!)
 

domenica 22 maggio 2011

STORIA DELLA LIBERTÀ DI PENSIERO

 

Socrate  
Caio Giulio Cesare
Gesù di Nazareth  
Cristoforo Colombo  
Girolamo Savonarola  
Giordano Bruno  
Galileo Galilei  



Che fine hanno fatto realmente  
Pitagora da Samo
Archimede  
Pietro Micca  
Maria Antonietta
Giuseppe Garibaldi
Mohandas Karamchand Gandhi  
Adolf Hitler  

Che fine potrebbero fare  
Rita Levi Montalcini  
Romano Prodi  
Silvio Berlusconi  

Che fine faremo tutti

sabato 21 maggio 2011

IL TECNICO

Il tecnico da bar, più comunemente chiamato "tennico" o anche "professore", è l'asse portante di ogni discussione da bar. Ne è l'anima, il sangue, l'ossigeno. Si presenta al bar dieci minuti prima dell'apertura: è lui che aiuta il barista ad alzare la saracinesca. Il suo posto è in fondo al bancone, appoggiato con un gomito. Lo riconoscerete perché non si siede mai e porta impermeabile e cappello anche d 'estate. Dal suo angolo il tecnico osserva e aspetta che due persone del bar vengano a contatto. Non appena una delle due apre bocca, lui si accende una sigaretta e piomba come un rapace sulla discussione. Nell'avvicinarsi emette il verso del tecnico: "Guardi, sa cosa le dico", e scuote la testa.

Il tecnico resta nel bar tutta la mattina: nei rari momenti di sosta, tra una discussione e l'altra, studia la "gazzetta dello Sport". Nell'intervallo per il pasto corre al buffet della stazione, che è sempre aperto, e lo si può vedere mentre col giornale che pende dalla tasca adesca
i pendolari cercando di attaccare bottone su Anastasi. Normalmente si ciba di aperitivi, patatine fritte e caffè, venti normali e venti hag, al giorno. Oppure fa un rapido salto a casa e mangia invariabilmente tortelloni, anzi li ingoia dicendo "Ho fretta, devo tornare in ufficio".


L'ufficio è il bar, dove il tecnico ricompare alle due meno dieci per restarvi fino all'ora di chiusura. A mezzanotte, il tecnico torna al bar della stazione, dove aspetta il giornale fino alle quattro, e accompagna a casa tutti gli amici per le ultime discussioni della giornata. Va a letto e parla nel sonno recitando classifiche fino alle sette, sette e mezzo.

Altra caratteristica del tecnico è lo sguardo: guarda sempre con un occhio chiuso per il fumo e con uno spiraglio dell'altro, rosso come brace e leggermente lagrimoso, la testa piegata da una parte. Il busto è leggermente ripiegato in avanti ad abbracciare l'ascoltatore; la mano sinistra mima; con la destra, munita di sigaretta, il tecnico vi dà continuamente delle piccole spinte, o dei colpetti sullo sterno, o vi tiene fermi contro il muro mentre vi parla.

Di cosa parla un tecnico? Di calcio, di sport in genere, di politica, di morale, di macchine, di diabete, di agricoltura, di prezzi della frutta, di sesso, di trattori, di cinema, di imbottigliamento, di spionaggio. In una parola di tutto. Quale che sia l'argomento trattato, il tecnico lo conosce almeno dieci volte meglio dell'occasionale interlocutore, anzi, dirà, è una delle cose che lo interessano fin da piccolo. Il vero tecnico suffraga le sue competenze con parentele. Esempio: se si parla di comunismo lui ha un cognato che lavora a Toggliattigrad; se si parla di pesca subacquea lui ha un fratello fidanzato da sei anni con una cernia; se si parla di edilizia, ha un cugino manovale, e cosi via. Inoltre è stato compagno di scuola di tutti i ministri dell'arco costituzionale, che spesso gli telefonano per sfoghi e confidenze.


Come parla il tecnico? Il tecnico parla in italiano leggermente modificato. Per fare qualche esempio, egli fa precedere molti termini da una a: aradio, agratis, mi amanca. Usa largamente la g: gangio, gabina. Cita largamente dal latino: sine qua non (siamo qua noi) o fiat lux (faccia lei). Usa verbi col congiuntivo tattico: se me lo dicevaste prima, anderei. Rimpasta termini inglesi: croch (cross), frobil (football). Usa termini innestati, esempio: Janich, il vecchio baluastro della difesa rossoblù (baluastro = baluardo+pilastro).

Il tecnico di calcio vive in simbiosi con un altro personaggio, che è "l'uomo col cappello". In tutti i capannelli, infatti se osservate bene, mentre al centro si trova il tecnico, leggermente defilato alla periferia c'è un uomo col cappello calato sul naso e le braccia dietro la schiena. Questo secondo personaggio sembra avere il compito di intervenire con bestialità tremende che fanno perdere le staffe al tecnico.

Benché ripetutamente invitato dal tecnico a portarsi al centro del capannello, preferisce spostarsi lungo la circonferenza parlando da punti diversi, cosicché il tecnico è continuamente obbligato a rispondergli girando in tondo.

Tutti sanno che il momento più importante per un tecnico calcistico da bar è quando, il giorno prima di una partita della nazionale, egli deve dare la sua formazione. Il tecnico, a questo punto, raduna una ventina di persone e comincia: "In porta Zoff. Terzini, Rocca e Fedele". E spiega il perché della sua scelta: Zoff è una sicurezza. Rocca è meglio di Facchetti perché li ha visti tutti e due alla televisione e Rocca gli è sembrato più in palla. Infine Fedele l'ha visto allo stadio, e correva e fluidificava.

A questo punto l'uomo col cappello interviene e dice:"Ma cosa dice. Se non sta in piedi".
Allora il tecnico racconta, una per una, le ottanta azioni di Fedele della partita precedente. Molto spesso è preparato alla bisogna e ha con sé un quaderno di appunti. Poi cita a memoria le cronache dei quattro quotidiani sportivi. Ma ecco che l'uomo col cappello, spostandosi a destra, dice dal tetto di una macchina: "Fedele ha il menisco".

Tutti allora si voltano allarmati verso il tecnico, per chiedere spiegazioni. Il tecnico li calma con un gesto della mano e passa in rassegna gli ultimi quaranta casi di menisco del campionato italiano. Spiega brevemente in cosa consiste l'operazione, anzi, se qualcuno si presta, gli taglia un pezzo di pantalone e lo opera sul marciapiede con un temperino, mostrando agli astanti la funzione dei legamenti della rotula. Oppure estrae dalla macchina un modello anatomico di ginocchio umano e lo illustra.

Quindi prosegue: "Stopper Morini, libero Burgnich, mediano sinistro Re Cecconi. Ala destra Mazzola, mezze ali Benetti e Rivera, ala sinistra Riva, centravanti Savoldi".
L'uomo col cappello appare da un tombino sulla sinistra e dice: "Savoldi? Siamo matti? Savoldi?".
"E perché?" gli viene chiesto. "Perché ha i piedi piccoli".

Allora il tecnico diventa color tecnico adirato, che è una bella sfumatura di rosso usata anche per i tailleur. Poi comincia a urlare tutti i numeri di scarpe dei centravanti italiani dal 1947, come un invasato: "Meazza 40, Piola 41, Charles 42, Pivatelli 40", dicendo che il piede piccolo, a meno che non sia porcino, non è affatto un handicap.

L'uomo col cappello ribatte: "Si, ma Savoldi ha il 39".
"E lei come lo sa?"
"Sono il suo calzolaio."
(Non è vero. Tutti gli uomini col cappello sono incompetenti, oltre che malvagi e bugiardi.)

Allora il tecnico urla: "Lei è un tecnico di serie C", che in un bar è un'offesa quasi mortale, e l'uomo col cappello replica: "Sono quelli come lei che mandano in rovina la nazionale!" e in breve tempo si azzuffano. La gente li separa. Il tecnico si allontana con aria di superiorità. L'uomo col cappello, rimasto padrone del campo, dichiara che l'Italia non vincerà mai uno scudetto finché continua a tenere Pelé in porta. Viene preso, pestato, e mandato via col camion del rusco.


giovedì 19 maggio 2011

LE CITTÀ E IL CIELO


Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l'imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.
Nella vita degli imperatori c'è un momento, che segue all'orgoglio per l'ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato, alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e a compenderli; un senso come un vuoto che ci prende una sera con l'odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri; una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull'altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in scoffitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine: è il momento disperato in cui si scopre che quest'impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro rovina. Solo nei resoconti di Polo, Kublai riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d'un disegno cosi sottile da sfuggire al morso delle termiti.

Chi arriva a Tecla, poco vede della città, dietro gli steccati di tavole, i ripari di tela di sacco, le impalcature, le armature metalliche, i ponti di legno sospesi a funi o sostenuti da cavalletti, le scale a pioli, i tralicci. Alla domanda: - Perché la costruzione di Tecla dura cosi a lungo? - gli abitanti senza smettere d'issare sacchi, di calare fili a piombo, di muovere su e giu lunghi pennelli, - Perché non cominci la distruzione, - rispondono. E richiesti se temono che appena tolte le impalcature la città cominci a sgretolarsi e a andare in pezzi, soggiungono in fretta, sottovoce : - Non soltanto la città.
Se, insoddisfatto delle risposte, qualcuno applica l'occhio alla fessura d'una staccionata, vede gru che tirano su altre gru, incastellature che rivestono altre incastellature, travi che puntellano altre travi.
- Che senso ha il vostro costruire? - domanda -. Qual è il fine d'una città in costruzione se non una città? Dov'è il piano che seguite, il progetto?
- Te lo mostreremo appena termina la giornata; ora non possiamo interrompere, - rispondono.
Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere. È una notte stellata. - Ecco il progetto, - dicono.


lunedì 16 maggio 2011

IL MAGO BAOL RACCONTA



In cui il mago baol racconta la sua triste storia e come previsto si mette nei guai



Io non so se Dio esiste,
ma se non esiste
ci fa una figura migliore

Galles a un cliente, aprile 1984


La lampadina della mia camera si è fulminata o forse si è uccisa. Illuminare posti come questo deve essere durissimo. Perciò leggo il giornale con un po' di luce presa in prestito dalla strada. Leggo del Premio dei Premi e della sicura presenza dei nostri beniamini per regalarci una serata indimenticabile. Leggo di un aereo caduto in circostanze misteriose dieci anni fa, cui è stato abbinato il concorso "Chi l'ha abbattuto?" Cronaca cittadina: un Prete Pazzo è penetrato in una clinica per aborti e ha mitragliato un intero reparto. Ha detto che lo guidava la voce di Dio. Anch'io avevo un amico cosi. Ogni tanto sentiva la voce di Dio che cantava "Lucille" di Little Richard. Allora doveva balzare in macchina e fiondarsi in autostrada ai centottanta, fin quando la voce non smetteva. Però lui non ha mai ammazzato nessuno, tolti quei tre-quattrocento gatti.


Ho avuto molti amici strani. I baol fanno amicizia in fretta, perché una delle prime cose che ti insegnano al tempio è come attaccare discorso con chiunque (non è facile, specialmente di questi tempi).
L'ultima cosa che leggo è l'elogio funebre di un noto torturatore. Un mondo di tribù, dove ognuno piange i suoi morti. Un baol deve odiare i nemici? La dottrina baol non è chiara a questo riguardo. La nozione stessa di baol non è chiara. Il poeta Heshi condensò l'essenza baol in questi versi:

E di notte
di notte
ci va di camminar


Il maestro Kara condensò l'essenza baol nel baol wu shi, arte marziale del baol codardo o della dignità del fuggiasco. Egli inventò sette stili:
 
Lo stile della tartaruga (tappati al chiuso e non venir fuori)
Lo stile del ghepardo ( scappa su un albero o su un punto elevato)
Lo stile del granchio (pedala all'indietro)
Lo stile dello scarafaggio (nasconditi dietro qualcosa)
Lo stile della mosca (fingiti morto)
Lo stile della lepre ( scappa più veloce che puoi)
Lo stile dell'elefantino (chiama in aiuto degli amici molto grossi)
 
Si batté battendosela duecentododici volte e non fu mai raggiunto né colpito. La duecentotredicesima affrontò numerosi nemici e ne fece polpette. Perché stavolta non sei scappato? gli chiesero. - Non mi sentivo bene - rispose.
 
Disteso sul letto meditai questa difficile e indisponente essenza della mia filosofia e delle filosofie in generale, sentii il gospel delle ambulanze e dei clacson, sentii le stelle che si consumavano e la marea della fame e della sazietà dei corpi, e le molle del letto gemere, e gli infiniti intrecci che in quel momento si preparavano perché io potessi dirigermi verso il mio segreto. La testa mi girò per i troppi distillati di erbe ingeriti quella sera e negli ultimi trent'anni.
 
Mi sedetti nella posizione del cane-mendicante-col-secchiello-in-bocca e aspettai. Il lavandino cantava roco. La vecchia tappezzeria Wienerbaum mi ipnotizzò con le sue geometrie. Comincia a vedere piccole cose nere con antenne che ci correvano sopra. Poi mi sembrò che entrasse un fantasma. Era vestito di bianco e azzurro. Disse qualcosa in tono genile. Si diresse verso il mio letto. Li con gesti veloci e aggrazziati, iniziò a fare una danza con le lenzuola. Le faceva volare in aria, poi le faceva ricadare come solo i fantasmi sanno fare con le lenzuola. Al termine della danza il letto, che prima recava le disordinate tracce dei miei sonni e dei miei incubi, era miracolosamente liscio e immacolato. Il fantasma aveva portato sul letto la quiete del suo mondo impalpabile. Ciò fatto mi guardò a lungo, come se attendesse un gesto da me. Poi, mormorando qualcosa, si dileguò. Il tempo passava lento. Ora vi parlerò del mio segreto.
Da quando sono nato, le cose mi hanno abbandonato. Fin qui niente di strano. "Incontrarsi e separarsi è il movimento unico e necessario con cui si traccia il nostro passaggio nel vuoto" (Baolian, libro II, p. 184). Ma per me è stato diverso. Le cose mi hanno sempre e solo abbandonato.
 
Quando ero piccolo, giocavo con gli amici nelle strade una volta alberate della città. I nostri giochi erano per lo più autoreferenziali (si diceva cosi, tra noi bambini). Eravamo burattinai e burattini, generali e soldatini, ingegnieri di piste per palline, tracciatori di limiti e confini. Erano giochi che andavano inventati e coordinati, in cui serviva perciò un fantasista e un organizzatore. Io ero bravo in tutti e due i settori (facciamo che io ero lo sceriffo e voi gli indiani e voi mi prendevate pringioniero e io scappavo e facevo crollare la diga e l'acqua ci portava via tutti e io facevo l'indondazione col secchio). Ed ecco che sul più bello della preparazione del gioco, mentre correvo tutto rosso e sudato a cercare penne indiane e secchi d'acqua, mi guardavo intorno e ... Spariti. I miei amichetti erano tutti spariti. Li cercavo per strade e vicoli, ma non li trovavo più. Magari si rifacevano vivi dopo un mese. E poi di nuovo sparivano. Perché?
 
A quattordici anni, comunicai ai miei genitori l'intenzione di studiare baol. Già da tempo si erano resi conto che non ero adatto a una vita normale, e convenivano che non c'è niente di più bello di un figlio che va per la sua strada. Feci la valigia. Andai commosso a salutarli e .... Spariti. Non li trovai né in casa né altrove. Misi anche un annuncio sul giornale "Sono stati smarriti due genitori. Indossano: lei un tailleur vigogna e un cappello con piume di dodo, lui un pigiama rigato con ampia scollatura scrotale e pantofole marmottiformi. Rispondono ai nomi di Betropia e Benedek. Chi ne avesse notizie è pregato...." Nessuna notizia, mai più. Perché? Eppure so che mi volevano bene.
 
Avevo un amico carissimo di nome Piotr. Insieme entrammo nei perturbatori urbani. Lanciammo molotov di centerbe e quadrelli medioevali, sabotanno semafori, saccheggiammo cartolerie, scassinammo flipper, decapitammo telefoni, liberammo visoni, immettemmo avanotti, affiggemmo manifesti, pestammo avversari, iscrivemmo proseliti, contestammo missili, coltivammo canapa, amammo, lottammo, credemmo. Io ispirai le sue azioni e lui le mie. Le mie donne erano anche le sue, che io volessi o no. Una notte eravamo insieme a scrivere sui muri della città "Assassini!" Dopo di noi passava il comitato politico e aggiungeva i nomi degli infami prescelti. Stavamo dipingendo l'argine di un fiume, quando udimmo le sirene della polizia. - Scappiamo! - gridai. Nessuno rispose. Sparito. La polizia mi catturò, e il mio amico Piotr non venne in mio aiuto. Perché?
 
In galera feci amicizia con un bel tipo. Si chiamava Candido. Una vita difficile. Era entrato in galera a sei anni per aver rubato una giostra. Rifiutò di dire (A) come aveva fatto e (B) dove l'aveva nascosta. In carcere scopri le parole crociate. Grazie ad esse si laureò in geografia e diventò un bravo cittadino. Usci perfettamente recuperato tranne una piccola indiosincrasia. Non sopportava chi gli diceva "È inutile che io le dica..." oppure " Non devo certo ricordarle che..." ne picchiò sedici in un mese. Lo rimisero dentro. Scontò la pena. Quando fu nuovamente rilasciato, il direttore del carcere gli disse: "È inutile che le dica che speriamo di non vederla più qui". Lo strangolò. Condannato all'ergastolo, si mise a fare sculture con i fiammiferi (galeoni perlopiù). In cella diventamo amici e insieme elaborammo un grande progetto: la storia del mondo a fiammiferi! Ci preparammo a lungo e una notte, tutti eccitati, decidemmo che l'indomani avremmo inziato con "la nascita dell'uomo". La mattina dopo Candido non c'era più. Sparito. Evaso. Perché?
 
Poi conobbi lei. Auck. Già ve ne ho parlato. Alta, bionda eccetera. La incontrai nel locale dove lavoravamo tutti e due come maghi. Dopo lo spettacolo c'era la selezione regionale del concorso "Sederino d'oro". Si aggiravano culi dentro mantelli da ku-lux-klan. Era difficile fare conversazione. Non eravamo in giuria, perciò la invitai a ballare nella sala piccola, dove c'era l'orchestra. Dissi al pianista: "Suonami il solito, per favore" Lui attaccò il tema di Perry Mason, la sigla del mio numero con l'oca. Non era proprio quello che volevo, ma ballammo ugualmente. Io le raccontai la mia vita fino ai trent'anni. L'orchestra suonava "Mi han detto che ti piacciono i ragazzi con il ciuffo". Lei mi raccontò la sua vita fino a ventidue anni. L'orchestra suonava "Zobie la mouche". Io le raccontai la mia vita dai trenta in poi. L'orchestra se ne andò a dormire. Provai a baciarla e lei disse no ti prego no non ora, io le chiesi perché? lei disse voglio che succeda nel momento giusto e io le dissi questo è il momento giusto e riprovai a baciarla e lei disse no ti prego no, non ora.
La donna delle pulizie cantava "Nessun dorma".
Io la strinsi più forte e lei non si sottrasse alla mia stretta, potevo sentire il suo cuore battere insieme al mio.
Le dissi: non ho mai conosciuto una donna come te e lei disse altrettanto.
L'orchestra era tornata e suovana Guns and Roses.
Improvvisamente mentre raccontavo il mio trentaseiesimo anno di vita, e precisamente un trasloco nel quale avevo perso un paio di calzini a me molto cari, vidi dipingersi sul suo volto il momento giusto: la baciai, e lei altrettanto.
L'orchestra applaudi e il contrabbasista venne personalmente a congratularsi.
Poi io dissi: andiamo da me o da te?
Lei disse: no ti prego, disse lei, la prima volta vorrei che fosse in un posto speciale.
Io abitavo alla pensione Astra alla camera sei, lei alla camera sette, prendemmo la camera otto, matrimoniale con vista su casse di birra.
 
Ci amammo due anni, sei mesi e tre giorni. Lei ogni notte si alzava e andava alla finestra. La ricordo con la schiena nuda, il lenzuolo intorno alle reni come una statua, i capelli, un'onda di splendore che traboccava, le luci della notte, un dito che tracciava figure incerte sulla finestra appannata. Io mi svegliavo per il cigolio e le dicevo:
- Dormi?
E lei: - No.
- Pensi?
- Si.
A questo punto mi riaddormentavo. Avrei forse dovuto starle più vicino? Avrei dovuto chiederle a cosa pensava?
Una notte presi sette caffè per stare sveglio. La sentii alzarsi dal letto e andare alla finestra. Sembrava triste, forse perché la finestra quella notte non era appannata e non poteva disegnarci sopra. Aveva dimenticato anche il lenzuolo.
- Dormi? - le chiesi.
- Si - disse lei.
Ci pensai un po' sù poi mi riaddormentai. Forse aveva voluto dirmi qualcosa, ma io non avevo capito. Non le ero stato vicino neppure in quel momento. La mattina quando mi svegliai non c'era più. Sparita. (Perché?)
Il portiere disse addirittura che aveva sempre creduto che nella nostra camera abitasse una sola persona. Dov'era andata? Eppure ero certo che mi amava. È forse questo il segreto della vita baol?
 
Tanto tempo è passato. Sono sempre stato solo, da allora. Solo come ora, mentre in quest'alba violacea piloto la mia Zaz rossiccia sull'autostrada grigiastra che porta fuori città, dal Groviglio verso il Silenzio.
Attraverso polvere e ruggine che galleggiano nell'aria, là dove non è né città né campagna, né fiori né deserto, dove un sole preistorico illumina colori chimici. Passo davanti ai campi di concentramento per tossicodipendenti e ai silos di droga. Sono diretto ai palazzi del Paradiso. La radio gracchia un rock malefico. Elicotteri ronzano nel cielo.
Forse pioverà. _______________________________________________

lunedì 9 maggio 2011

DOV'È PIÙ AZZURRO IL FIUME


Era un tempo in cui i più semplici cibi racchiudevano minacce infide e frodi. Non c'era giorno in cui qualche giornale non parlasse di scoperte spaventose nella spesa del mercato: il formaggio era fatto di materie plastiche, il burro con le candele steariche, nella frutta e verdura l'arsenico era concentrato in percentuali più forti che non le vitamine, i polli per ingrassarli li imbottivano di certe pillole sintetiche che potevano trasformare in pollo chi ne mangiava un cosciotto. Il pesce fresco era stato pescato l'anno scorso in Islanda e gli truccavano gli occhi perchè sembrasse di ieri. Da certe bottiglie di latte era saltato un sorcio, non si sapeva se vivo o morto. Da quelle d'olio non colava il dorato succo dell'oliva, ma grasso di vecchi muli, opportunamente distillato. Marcovaldo al lavoro o al caffè ascoltava raccontare queste cose e ogni volta sentiva come il calcio di un mulo nello stomaco, o il correre di un topo nell'esofago.

A casa, quando sua moglie Domitilla tornava dalla spesa, la vista della sporta, che una volta gli dava tanta gioia, con i sedani, le melenzane, la carta ruvida e porosa dei pacchetti del droghiere e del salumaio, ora gli ispirava timore come per l'infiltrarsi di presenze nemiche tra le mura di casa. "Tutti i miei sforzi devono essere diretti - si ripromise - a provvedere la famiglia di cibi che non siano passati per le mani di speculatori".

Al mattino andando al lavoro, incontrava a volte uomini con la lenza e gli stivali di gomma, diretti al lungofiume. "È quella la via", si disse Marcovaldo. Ma il fiume li in città, che raccoglieva spazzature, scoli e fogne, gli ispirava una profonda ripugnanza. "Devo cercare un posto, - si disse, - dove l'acqua sia davvero acqua, i pesci davvero pesci. Li getterò la mia lenza".

Le giornate cominciavano ad allungarsi: col suo ciclomotore, dopo il lavoro Marcovaldo si spingeva a esplorare il fiume nel suo corso a monte della città, e i tratti dove l'acqua scorreva più discosta dalla strada asfaltata. Prendeva per i sentieri, tra le macchie di salici, sul suo motociclo finché poteva, poi - lasciatolo in un cespuglio - a piedi, finché arrivava al corso d'acqua. Una volta si perse, girava per ripe cespugliose e scoscese, e non trovava più alcun sentiero, né sapeva più da che parte fosse il fiume: a un tratto, spostando certi rami, vide, a poche braccia sotto di sé, l'acqua silenziosa - era uno slargo del fiume, quasi un piccolo calmo bacino -, d'un colore azzurro che pareva un laghetto di montagna. L'emozione non gli impedi di scrutare giù tra le sottili increspature della corrente. Ed ecco, la sua ostinazione era premiata! un battito, il guizzo inconfondibile d'una pinna a filo della superficie, e poi un altro, un altro ancora, una felicità da non credere ai suoi occhi: quello era il luogo di raccolta dei pesci di tutto il fiume, il paradiso del pescatore, forse ancora sconosciuto a tutti tranne a lui.

Tornando (già imbruniva) si fermò a incidere segni sulla corteccia degli olmi, e ad ammucchiare pietre in certi punti, per poter ritrovare il cammino. Ora non gli restava che farsi l'equipaggiamento. Veramente, già ci aveva pensato: tra i vicini di casa e il personale della ditta aveva già individuato una decina di appassionati della pesca. Con mezze parole e allusioni, promettendo a ciascuno d'informarlo, appena ne fosse stato ben sicuro, d'un posto pieno di tinche conosciuto da lui solo, riusci a farsi prestare un po' dall'uno un po' dall'altro un arsenale da pescatore il più completo che si fosse mai visto. A quel punto non gli mancava nulla: canna lenza ami esca retino stivaloni sporta, una bella mattina, due ore di tempo - dalle sei alle otto - prima d'andare a lavorare, il fiume con le tinche....Poteva non prenderne ?

Difatti bastava buttare la lenza e ne prendeva; le tinche abboccavano prive di sospetto. Visto che con la lenza era cosi facile, provò con la rete: erano tinche cosi ben disposte che correvano nella rete a capofitto. Quando fù l'ora di andarsene, la sua sporta era già piena. Cercò un cammino, risalendo il fiume.
- Ehi lei! - a un gomito dalla riva, tra i pioppi, c'era ritto un tipo col berretto da guardia, che lo fissava brutto.
- Me? Che c 'è? - fece Marcovaldo avvertendo un'ignota minaccia contro le sue tinche.
- Dove li ha presi, quei pesci li? - disse la guardia.
- Eh? Perché? - e Marcovaldo aveva già il cuore in gola.
- Se li ha pescati là sotto, li butti via subito: non ha visto la fabbrica qui a monte? - e indicava difatti un edificio lungo e basso che ora, girata l'ansa del fiume, si scorgeva, di là dai salici, e che buttava nell'aria fumo e nell'acqua una nube densa d'un incredibile colore tra il turchese e il violetto.
- Almeno l'acqua, di che colore é, l'avrà vista! Fabbrica di vernici: il fiume è avvelenato per via di quel blu, e i pesci anche. Li butti via subito, se no glieli sequestro!
Marcovaldo ora avrebbe voluto buttarli lontano al più presto, toglierseli di dosso, come se solo l'odore bastasse ad avvelenarlo. Ma davanti alla guardia, non voleva fare quella brutta figura.
- E se li avessi pescati più su?
- Allora è un altro paio di maniche. Glieli sequestro e le faccio una multa. A monte della fabbrica c'è una riserva di pesca. Lo vede il cartello?
- Io, veramente, - s'affrettò a dire Marcovaldo, - porto la lenza cosi, per darla ad intendere agli amici, ma i pesci li ho comprati dal pescivendolo del paese qui vicino.
- Niente da dire allora. Resta solo il dazio da pagare, per portarli in città: qui siamo fuori della cinta.
Marcovaldo aveva già aperto la sporta e la rovesciava nel fiume. Qualcuna delle tinche doveva essere ancora viva, perchè guizzò via tutta contenta.

domenica 1 maggio 2011

IL BAR PESO


Questo tipo di bar, anche se in via di estinzione, è uno degli ultimi esempi di bar del passato. Ne resta un centinaio di esemplari, non protetti, in quanto sono in grado di proteggersi benissimo da soli. Si trovano in paesi impervi, e in alcune periferie metropolitane. Il Bar Peso è contrassegnato da un clima di ruvida familiarità e cordiale rissosità, nonchè dall'igiene disinvolta e dalla presenza di gestori e clienti fortemente orientati agli alcolici.
Come si riconosce un Bar Peso? L'intenditore lo individua subito, dagli odori, dalle facce, dall'atmosfera particolare. Ma se siete dei profani, ecco tredici indizi che vi possono aiutare.
1. Segatura per terra.
2. La presenza di un cane nero di nome Black, Bill o Pallino, che appena entrati vi annusa il sedere.
3. Televisione pensile (se c'è), sospeso a tre metri di altezza. È un vecchio modello diciotto pollici, ottantotto chili miracolosamente in equilibrio su una mensolina di vetro. Sotto la televisione dorme un vecchietto con la bocca aperta, sorvolato da una pattuglia acrobatica di mosche. Appoggiato al muro c'è un bastone di legno: è il telecomando. Il vero telecomando è sempre rotto perché i clienti, abituati a ben diversi attrezzi, tutte le volte che lo usano lo sbriciolano come un wafer.
4. Nell'aria volano le mosche del Bar Peso (
dipterus rudis) alquanto diverse dalle mosche normali. Anzitutto le loro traiettorie, per i vapori alcolici, sono più sghembre e imprevedibili della media, con grandi cabrate dentro le bocche dei clienti assopiti. Se le colpite con un normale schiacciamosche, ve lo strappano di mano e restituiscono il colpo. Oppure stramazzano al suolo simulando l'agonia, e dopo un'ora ripartono più vispe di prima. Ultima particolarità, il rumore: sanno ronzare in cinque tonalità diverse. Il perché lo ha scoperto un'entomologa di Imola: le mosche da bar hanno il cambio e le marce.
5. Presenza di una grossa carpa imbalsamata, d'aspetto sacerdotale, appesa al muro.
6. Presenza di un distributore misterioso il cui contenuto è ormai indecifrabile perché da anni, a causa della ruggine, nessuno riesce a introdurre una monetina. Alcuni di questi distributori sono cosi vecchi che accettano solo sesterzi romani. Aprendoli a martellate, a volte ne escono noccioline fossili, palline con l'effige di Girardengo e gomme americane tipo"Dracula" che svaniscono a contatto dell'aria.
7. Foto del barista a fianco di un famoso campione che però lui non si ricorda più chi è, forse Carnera, forse Bobet, forse sua moglie da giovane.
8. Foto di squadre di calcio nazionali, locali o degli avventori del bar stesso. Quest'ultima squadra si riconosce dal dodicesimo giocatore basso e rotondetto che, ad un esame più accurato, risulterà una damigiana.
9. Bicchieri di almeno tre centimetri di spessore, con effetto telescopico: accostando l'occhio al vetro si possono vedere distintamente gli anelli di Saturno, specialmente dopo la ventesima grappa.
10. Bacheca delle paste con vetro fumé per nascondere le rughe.
11. Coniglio di peluche azzurro delle dimensioni di un orango, usato come premio-esca per la riffa e mai aggiudicato in trent'anni.
12. Cartoline da tutto il mondo.
13. Presenza dietro il bancone del Barista Peso.

Le dodici frasi da non dire mai al Barista Peso
Mi fa una camomilla?
Guardi che c 'è uno scarafaggio nello zucchero (lo scarafaggio si chiama Edoardo e abita li da un anno)
Vorrei un panino al prosciutto ma per favore mi tolga tutto il grasso.
Mi dia un pomodoro condito.
Mi dia un baby liscio (non vi daranno un whisky, ma un sacco di botte credendovi un pedofilo)
Scusi, dov'è il Dietor?
Scusi, dove sono i servizi?
Accettate carte di credito?
Avete carte da bridge?
Vorrei un caffé d'orzo in tazza grande con l'acqua calda a parte.
Mi dia una pasta senza niente dentro.
Perché questo vino è cosi rosso?
I cocktail pesi
Specialità del Barista Peso, antiche ricette di un'alchimia della distruzione epatica di cui si va perdendo la tradizione.

Caffé corretto
(per tirarsi su)
Una tazzina di caffé

Un bicchiere di cognac
Un bicchiere di grappa
Un bicchiere di Vov

tre mestoli di minestra di fagioli
Pepe, peperoncino, noce moscata
(guarnire con una baionetta)


Scrocca-e-vai
(per chi non ha una lira)
1/4 di vino bianco offerto dal barista
1/4 di birra rimasta dal boccale di Piero
1/4 dei fondi di sette crodini raccolti nella spazzatura
1/4 di gas liquido da accendino

Pitecantropus
(Long drink)
Un Campari
Una nocciolina
Un Campari

Una nocciolina

Un Campari

Una nocciolina
(e cosi via, fino a un massimo di quattrocentocinquanta)

Désir de Paris
(per chi ama l'esotismo)
1/3 di Ville Lumière (profumo di donna)

1/3 di Peugeot (benzina rubata da un'auto in sosta)

1/3 di Grand Marnier (ottenuto strizzando un vecchio boero)


Alexander
(per i più raffinati)
Un bicchiere di latte
Far alitare nel bicchiere l'idraulico Alessandro dopo che ha bevuto la ventesima vodka. Il latte prenderà una squisita gradazione alcolica.

La toilette del Bar Peso
Nel Bar Peso c'è una toilette, ma non è facile da raggiungere. Alla domanda:"scusi, dove posso lavarmi le mani?" la risposta può essere di tre tipi:

Grado di difficoltà uno: Vada in fondo a destra nel retrobottega, c 'è un cortile. Lo attraversa fino a una porticina rossa, poi scenda le scale strette strette, sbuca in un altro cortile, a sinistra c'è una porta verde con la scritta "pericolo di morte", li c 'è la toilette, se sente raspare alla porta non apra.

Grado di difficoltà due: Esca, attraversa la strada, c'è un distrinutore di benzina, chieda di Armando, l'accompagnerà a una scaletta di ferro che scende a picco in uno scantinato, prenda la terza catacomba a sdestra, poi sale le scale, c'è un campanello con la scritta Fornarini, è mio cugino, se non è ubriaco la fa pisciare, se è ubriaco le piscia aaddosso lui.

Grado di difficoltà tre
: Esca, attraversi il cortile, c'è un prato, in fondo vedrà una collina coperta di neve, salga fino a metà, c'è una grotta, li può fare tutto quello che vuole senza essere disturbato, ma accenda un fuoco per tenere lontano il Kumkrull.

È noto il caso di un ingegnere di Brescia che, partito verso una toilette pesa del Centro-Sud, tornò dodici anni dopo e non parlò mai più per tutta la vita. Ma c 'è anche il caso di una signorina che, entrata in una toilette pesa, riemerse l'anno dopo madre di due bellissimi gemelli.

IL BAR FICO
Nemico storico del Bar Peso, il Bar Fico ha conquistato sempre maggior spazio in megalopodi e borghetti del nostro paese. Come si riconosce un Bar Veramente Fico? Naturalmente dal fatto che è frequentato dai Vip, siano essi internazionali, cittadini o condominiali. Maa il Bar Fico è soprattutto individuato da alcune particolarità che illustriamo.

A.
La miniaturizzazione delle paste. Più piccole e costose sono le paste più il bar è figo. Vediamo quindi mini-bigné che non ospiterebbero neanche un paguro, brioche invisibili a occhio nudo, pastefrolle decorate con con un brandello di fragola, krapfen non più grandi di un bulbo oculare. Eppure il cliente figo, sospettoso per la sua dieta, chiede ogni volta:"scusi, cosa c 'è dentro?", come se da quel bonsai potessero sgorgare, come per magia, colate laviche di colesterolo. Possiamo affermare che dai tempi della Grande Luisona, è in atto un restringimento progressivo e inarrestabile dell'anatomia dolciaria. Si è calcolato che con questo ritmo una pasta nel 2010 non sarà più grande di un batterio e costerà dodicimila lire.

B.
Gli Stuzzifichi (vedi il capitolo sul bancone del Bar Figo)

C.
Il caffè non è mai caffè. Si chiama "crème", "crème estivo", parigino", americano", "imbiondito", "francese. Viene servito con un minuscolo calice di acqua di seltz e dodici quanlità di dolcificanti, compresi lo zucchero di bambù per panda, la saccarina per maratoneti e il miele di ape monaca.

D.
La cordialità degli avventori del Bar Figo è entusiasta ed esibita in modo perfino sospetto. Chi entra, urla di gioia al cospetto del conoscente, come se non lo vedesse da dieci anni, mentre lo ha lasciato la sera prima. È tutto un fiorire di pacche sulle spalle e virili toccate di coglioni tra gli uomini, di trilli e bacetti sodali tra le donne. Mentre si saluta e si bacia il primo conoscente, già con la mano si fa un cenno al secondo e si strizza l'occhio al terzo. Per uno strano contrappunto, queste espressioni di affetto vengono per lo più accompagnate da spiritosi epitetiquali "brutto bastardo!", "eccoti qua vecchia checca!", oppure "stronza, dov'eri finita?" o "troia, che sorpresa!". Lo scopo di questo Gran Teatro della cordialità è naturalmente segnalare il proprio arrivo e parimenti mostrare quanta gente si conosce.
Guai a chi, entrando in un Bar Figo, va direttamente alla cassa e non saluta, né viene salutato da qualcuno. Chi è? Un rappresentante di mentine, un rainatore o peggio, un non-Vip che vuole inserirsi a tradimento?
Il vero habitué del Bar Figo poi, non solo saluta fragorosamente, ma piange di commozione, stritola mani, bacia sensualmente, dopodiché si apparta in un angolo con un conoscente esternandogli l'odio per tutti i presenti, l'insofferenza per quste recite smanciose, e la noia di doversi recare li tutte le sere, mentre nei bar di Manhattan o di Marbella c'è tutta un'altra atmosfera.

E.
Il rapporto con il motore. Pare che qualche maledizione impedisca ai frequentatori del Bar Figo di accedervi a piedi. Vedremo dunque sciami di motorini e vespine, su cui sono sdraiati ragazzi e ragazze che comunicano tra loro da sellino a sellino, con manubri e fanali infilati nelle combinazioni più scomode e in ogni cavità disponibile. Nel reparto grandi moto fanno mostra di se alcuni trentenni o settantenni, inguainati in tute di cuoio. I più magri sembrano l'Uomo Ragno, i più rotondi un divano da anticamera odontoiatrica. Le donne fanno sgorgare dai caschi abbondandi chiome e aprono con maestria le zip mostrando scampoli di cute e settori di tette. La zona auto parcheggiate è una specie di labirinto metallico, un magma di cilindrate in cui ognuno blocca l'altro, e ci si parla dai finestrini, perché non è possibile uscire.

F.
Le tinte. Nel Bar Figo nessuno ha la sua colorazione naturale, cosicché un osservatore neutrale potrebbe pensare di essere entrato in un film di fantascienza. Gli uomini hanno abbronzature da solarium color albicocca o vitello tonnato, occhiali scuri con lenti rosa o verde pisello e i capelli unti di gel che riflette il colore del soffitto. Le donne, causa fard o lampada o Caraibi, sono color biscotto, con labbra rosa confetto o verdoline e strani gonfiori siliconici che emanano improvvisi bagliori. I capelli sono di varie miscele biondastre e spiccano su un abbigliamento rigorosamente nero. La sensazione finale è di assistere sotto Lsd a un funerale siciliano.

G.
Gastone l'animatore. In tutti i Bar Fichi c'è un uomo, che chiameremo Gastone l'animatore, che proferisce battute ad alta voce, sa tutto quello che è successo la sera prima e soprattutto si da da fare per organizzare la serata. Non sappiamo se lo fa per vocazione, se non ha altro da fare, se è pagato dallEnte del Turismo, ma il suo sforzo è costante e metodico, diretto ad assicurare il massimo del divertimento e di partecipazione collettiva. Esempi di programma di Gastone:
a. ci troviamo qui al bar verso le nove, prendiamo l'aperitivo poi andiamo al ristorante ma prima bisogna prenotare, allora torniamo a casa, Carletto prenota poi avvisa tutti e ci diamo un altro appuntamento qui verso le undici e da li andiamo al ristorante da dove telefoniamo alla Titti che ci dice se ci raggiunge oppure se ha prenotato un altro ristorante, allora, o ci trasferiamo al nuovo ristorante, o restiamo dove siamo e li ci telefona la Titti che ci dice se c 'è una festa, ci troviamo qui all'una e raggiungiamo la Titti alla festa o se non c'è la festa la Titti vien qua alle due per mettersi d'accordo dove organizzare la festa e ci si rivede qui verso le quattro per andarci.
b. Ci troviamo qui alle dieci per andare al ristorante prenotato fuori città e facciamo una carovana di dieci macchine guidata da Carletto, e passiamo a prendere la Titti che intanto ha radonato i suoi, poi in una ventina di macchine torniamo qua verso mezzanotte, se qualcuno si perde l'appuntamento è all'una al casello di Modena dove c 'è anche il gruppo delle Maldive con un'autocolonna di fuoristrada, si va tutti con la mappa perché il ristorante è in mezzo alla campagna, e dopo mangiato ci si ritrova tutte e quaranta le macchine qua al bar dove c'è il grupo di Claudio con le moto per andare alla festa al mare, chi si perde l'appuntamento è a casa della Titti alle quattro ma siccome li non c 'è da parcheggiare viene Magagnoli con la biscarda e porta via tutte le macchine e ce le restituisce domattina alle otto al casello di Rimini.
c. Ci troviamo qui a mezzanotte e aspettiamo Carletto che torna in aereo da Cuba con l'aragosta fresca per andare da Luisa che sta aspettando Colette che torna da Parigi con la maionese e se ritardiamo mangiamo un panino in mezzo alla strada e l'ultimo che va via porta a casa la Titti e la tromba che è il suo compleanno.
d. Andiamo tutti a casa della Titti a vedere Sanremo e mia mamma ci fa le sfrappole.