sabato 6 settembre 2008

L'AVVENTURA DI RINALDO

Un giorno Rinaldo cadde dalla bicicletta e torno' a casa con un grosso bernoccolo sulla fronte. La zia con cui viveva ( i genitori erano emigrati in Germania in cerca di lavoro) si spavento' moltissimo. Era giusto una di quelle zie che si spaventano di tutto.
- Rinaldo, bambino mio, che cosa ti é successo ?
- Niente di male, zia Rosa. Sono caduto dalla bicicletta e basta.
- Cielo, che spavento ! - Ma se non mi hai nemmeno visto cadere ....
- Proprio per questo !
- Un'altra volta prima di cadere ti chiamo.
- Rinaldo non scherzare con queste cose ! Dimmi piuttosto perché hai portato la bicicletta in casa.
- In casa ? Ma no, l'ho lasciata sotto il portico, come sempre.
- E allora quella bicicletta li di chi é ?
Rinaldo si volta, seguendo l'indice della zia e vede una bicicletta rossa appaggiata alla parete della cucina.
- Quella li ? Non é mica mia, zia Rosa. La mia é verde.
- Sicuro, é verde. Ma allora ? Non sarà mica entrata da sola ?
- Già. Ci siano stati i fantasmi ?
- Rinaldo, non parlare di fantasmi, ti prego !
- E' anche una bella bicicletta.
La zia Rosa caccio' un urlo.
- Che c'é zia ?
- Ma guarda, c'é un'altra bicicletta !
- Davvero ! Bella anche questa.
La signora Rosa si torceva le mani, più che mai spaventata:
- Ma da dove saltano fuori tutte queste biciclette? - Boh, - fece Rinaldo - è un bel mistero. Non ci saraà mica una bicicletta anche in camera da letto? Ma si che c 'è, guarda zia Rosa. E con questa fanno tre. Fra poco se va avanti cosi, avremo la casa piena di biciclette....
Al nuovo urlo della zia Rinaldo fu costretto a tapparsi le orecchie. Il fatto é che egli aveva appena finito di pronunciare la parola "biciclette" che la casa si riempi' veramente di bibiclette.....Ce n'erano dodici solo in bagno, come poté constatare la zia Rosa , gettandovi un'occhiata terrorizzata: due stavano nella vasca.
- Basta, Rinaldo, - sospiro' la povera donna lasciandosi cadere su una sedia, - basta, non ne posso più.
- Ma come, basta ? Cosa c'entro io ? Non sono mica io che le fabbrico. Figuriamoci, io non so nemmeno fabbricare un triciclo .......
Driiin ! Driiin !
Un bellissimo triciclo comparve sul tavolo, cosi nuovo che aveva ancora le ruote avvolte nella carta dell'imballaggio: ma il campanello trillava allegramente come per dire:"Sono qui anch'io!"
- Rinaldo, ti prego !
Zia Rosa, non crederai davvero che sia colpa mia quello che sta succedendo ?
- Certo, figliolo. Voglio dire, non lo credo, Rinaldo. Ma lo stesso, ti prego, sii prudente: non pronunciare più né la parola bicicletta né la parola triciclo.
Rinaldo scoppio' a ridere:
- Se é per questo posso parlare d'altro; Vuoi che parliamo di sveglie o di cocomeri freschi ? di budini al cioccolato o di stivali di gomma ?
La zia svenne. Via via che quei nomi uscivano dalla bocca di Rinaldo, la casa si andava popolando di sveglie, cocomeri, budini, stivali. Quegli stravaganti e impossibili oggetti comparivano dal nulla, come fantasmi.
- Zia ! Zia Rosa !
- Eh ? Cosa c'é ? Ah ! - fece la donna, tornando in sé.
- Rinaldo, nipote mio e figlio mio per carità siediti li' e stà zitto. Vuoi bene a zia tua? Siediti li' e non ti muovere. Vado a chiamare il professor De Magistris, lui ci capirà qualcosa.
Questo professor De Magistris era un professore in pensione, che bitava dall'altra parte del cortile. Quando la zia Rosa aveva un problema, correva dal professor De Magistris che non si faceva mai pregare per starla ad ascoltare e darle il suo aiuto. Solo i vecchi sanno essere cosi' generosi e pazienti. Il professore non si fece pregare nemmeno stavolta.
- Allora, giovanotto, che succede ?
- Buona sera, professore. Non saprei proprio. Pare che in questa casa ci siano gli ......
Ma prima che potesse pronunciare la parola "spiriti" la zia Rosa gli mise una mano sulla bocca.
- No ! Rinaldo, non quella parola ! Tutto ma non gli spiriti !
- Signora - intervenne il professore De Magistris, - mi spieghi per benino, mi faccia capire.
- Ma cosa c'é da capire ? E' caduto dalla bicicletta e ha battuto la testa. E cosi', ecco: ogni volta che dice una parola, quella cosa li, ossia la parola .....
- Guardi, professore, -fece Rinaldo; - io dico: gatto.
Miao, fece il gatto materializzatosi su una sedia presso la stufa.
- hep ! - fece il professore. -Hm ! Capisco.
- Ha visto che roba ? E i suoi genitori che sono in Germania. Una malattia simile ...
- Ma quale malattia ! - protesto' Rinaldo. - A me pare una bella comodità. Se ho fame di un gelato al pistacchio ....
Ploff !
Ecco il gelato pronto in una coppa di cristallo.
- Mi sembra ottimo - commento' il professore - ma il cucchiaino dov'é ?
- Cucchiaino, - disse Rinaldo - Anzi un altro gelato e un altro cucchiaino, cosi' ne avremo uno per ciascuno. Vuoi anche tu un gelato, zia ? Ma la zia Rosa non rispose: era svenuta per la seconda volta __________________________________________________________
Rodari ha immaginato tre finali possibili per questa storia e voi ?
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Quiz all'ergastolo



In questo grande penitenziario alla periferia della città, riservato agli ergastolani, c'è una regola in apparenza umana, in realtà più che crudele. A ciascuno di noi, condannati a vita, è consentito per una volta di presentarsi in pubblico e di parlare alla cittadinanza per mezz'ora. Il detenuto tratto dalla cella, viene condotto su un balcone dell'edificio esterno, dove sono la direzione e gli uffici. Dinanzi si stende la vasta piazza della Trinità e qui si raccoglie la folla ad ascoltare. Se alla fine del discorso la folla applaude, l'egastolano è liberato.
Puo' sembrare una indulgenza eccezionale. Ma non é. Prima di tutto la facoltà di appellarsi al pubblico è concessa una volta sola, vale a dire una sola volta nella vita. In secondo luogo, se la folla risponde di no - come quasi sempre avviene - la condanna ne resta in certo senso convalidata dalla popolazione stessa e pesa ancor di più sull'animo del detenuto; per cui, dopo, i giorni di espiazione diventano ancor più tetri e amari.
C'é poi un'altra circostanza che trasforma questa speranza in un tormento. Il prigioniero infatti non sa quando gli sarà consentito di parlare. La decisione in proposito è affidata al direttore del penitenziario. Puo' darsi che l'uomo sia condotto sul balcone anche dopo mezz'ora essere giunto al carcere. Ma non é escluso che lo si faccia aspettare lunghi anni. Qualcuno, entrato in galera giovanissimo, fu condotto al fatidico balcone ch'era già vecchio cadente e quasi incapace di parlare. La preparazione quindi non puo' essere fatta con la calma necessaria ad una cosi difficile prova. Uno pensa: forse mi chiamano domani, forse stasera, forse fra un'ora. Nasce l'affanno e nell'affanno i progetti si accavallano, le più disparate idee ingarbugliandosi in un nevrastenico groviglio. Né giova il poterne parlare coi compagni di pena, nella troppo breve ora della passeggiata quotidiana. In genere, non esiste alcuna confidenza reciproca su quello che dovrebbe essere l'argomento principe degli incontri della nostra sventurata comunità. In genere, ciascuno si illude di avere scoperto il gran segreto, l'argomento irresistibile con cui schiodare l'avaro cuore della folla. E teme di rivelarlo agli altri per non essere preceduto: logico infatti che la gente, lasciatasi commuovere da un ragionamento, resti scettica e diffidente se lo sente ripetere una seconda volta.
Utili elementi, per sapersi regolare, potrebbero essere le esperienze di quelli che hanno tenuto il loro discorso senza successo. Si potrebbe almeno scartare i sistemi da loro adottati. Ma questi "bocciati" non parlano. Inutilmente li supplichiamo di raccontarci che cosa hanno detto, come ha reagito la folla. Sogghignano e non pronunciano sillaba. In galera restero' tutta la vita - si direbbe che pensino - in galera ci dovete restare pure voi; non voglio aiutarvi in alcun modo. Tanto sono carogne.
E' fatale pero', nonostante tutti questi misteri, che qualche piccola cosa si sia venuta a sapere. Ma in queste vaghe dicerie non si ritrova alcun elemento utile. Risulta, per esempio, che, in questi discorsi alla folla, gli ergastolani battano soprattutto su due argomenti: la propria innocenza e gli affetti familiari; cio' che é addirittura ovvio. Ma in che modo hanno svolto il tema? A che linguaggio sono ricorsi? Hanno inveito?, hanno supplicato?, si sono messi a piangere? Nessuno qui dentro lo sa.
Ma la prospettiva più scoraggiante è la folla stessa dei concittadini. Noi saremo magari dei pendagli da forca. Quelli, là fuori, gli uomini e le donne libere, non scherzano, pero'. All'annuncio che un ergastolano parlerà dal balcone, accorrono nella piazza non già con l'animo di chi dovrà esprimere un grave giudizio da cui dipende l'esistenza di un uomo; vengono unicamente per divertirsi, come andassero a una fiera. E il pubblico non é fatto soltanto dalla schiuma dei bassifondi; ci sono anche molte persone di specchiata moralità, funzionari, professionisti, operai accompagnati dall'intera famiglia. Il loro atteggiamento non é tuttavia di comprensione, se non di commiserazione e di pietà. Anch'essi sono là per spasso. Già noi, con le casacche a strisce, con la testa rapata a metà, siamo, a vedersi, quanto di più abbietto e grottesco si possa concepire. Lo sciagurato che compare sul balcone non trova ad attenderlo - come si potrebbe pensare - un rispettoso e intimidito silenzio; bensi' fischi, lazzi osceni, scrosci di risate. Ora, che puo' fare un uomo, già emozionato e tremante, di fronte a una simile platea? E' un'impresa disperata.
Di più: in termini di leggenda si narra che in passato qualche ergastolano sia riuscito a vincere la prova. Ma sono voci molto incerte. Sicuro è che da nove anni a questa parte, da quando cioè io mi trovo imprigionato, nessuno ce l'ha fatta. Circa una volta al mese, da allora, uno di noi si è affacciato al balcone per parlare. Tutti, poco dopo, sono stati riportati in cella. La folla li aveva selvaggiamente fischiati.
Ora mi annunciano, i guardiani, che il turno tocca a me. Sono le due del pomeriggio. Fra due ore dovro' presentarmi alla folla. Ma io non tremo. So già, parola per parola, cio' che mi conviene dire. Il terribile quiz credo di averlo risolto. Ho meditato a lungo: nove anni, pensate, di ininterrotta meditazione. Nè mi illudo di trovare un pubblico meno malvagio di quello che ha ascoltato i miei compagni sconfitti.
Aprono la porta di ferro della cella, mi fanno attraversare l'intero blocco del penitenziario, mi fanno salire due rampe di scale, entrare in una sala dignitosa, uscire infine sul balcone. Dientro di me si sprangano le imposte. Sono solo, di fronte alla folla.
Non riuscivo a tenere aperti gli occhi, tanta era la luce. Poi vidi i giudici supremi. Saranno state almeno tremila persone che mi fissavano avidamente.
Poi un lungo sibilo, estremamente plebeo, apri' la salva obbrobbiosa. La vista del mio volto sparuto e sconvolto dalle afflizioni destava uno straordinario godimento, a giudicare dalle risate, dalle provocazioni, dagli sberleffi. "Ve', il gentiluomo! Parla l'innocente! C'è la mammina che ti aspetta, vero? E i bambini, ti piacerebbe riverderli i tuoi bambini?".
Appoggiato con le mani alla balaustra, io stavo impietrito. Scorsi, proprio sotto il balcone, una ragazza che mi parve bellissima; con le due mani discosto' i lembi della generosa scollatura affichè io potessi vedere bene. "ti piaccio, bel signorino," urlava. "Ci avresti gusto, eh?" E poi giù a sghignazzare.
Ma io avevo bene in mente il piano, il solo che forse mi avrebbe salvato. Non mi lasciai smuovere, tenni duro, non li invitai a tacere, non feci cenno di sorta.
E ben presto mi accorsi, con indicibile conforto, che il mio contegno li stupiva. Evidentemente i compagni che mi avevano preceduto sul balcone avevano adottato un'altra tattica, forse reagendo, alzando la voce, supplicando il silenzio; e cosi' si erano rovinati.
Restando io fermo e muto come una statua, l'ignobile gazzarra a poco a poco si quieto'. Sibilarono ancora quà e là alcuni fischi, poi si fece silenzio.
Niente. Facendo una terribile forza su me stesso, io tacqui ancora.
Finalmente una voce, abbastanza civile e sincera: "Parla, parla dunque. Ti ascoltiamo".
E finalmente mi decisi.



Le chiacchere di carnevale

Questi piccoli dolci sono preparazioni tradizionali, specialmente del giovedi grasso. Fate la fontana con la farina e ponete nel mezzo il burro, i tuorli, l'uovo, lo zucchero e il sale e impastate ogni cosa con il vino bianco, tanto da ottenere una pasta omogenea.

Lasciate riposare un poco questa pasta e poi stendetela molto sottile, sulla tavola infarinata, ricavandone, con un coltello o con l'apposita rotella dentata, dei nastri a piacere, lunghi o corti, semplici o foggiati a nodo, che friggerete di un bel colore d'oro in abbondante olio caldo.

Dopo aver fritto le frappe accomodatele a piramide in un piatto e spolverizzatele di abbondante zucchero a velo.

Abitualmente si servono fredde accompagnate da una salsa per esempio al cioccolato o allo zabaione.

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Ingredienti per 500 gr di chiacchere

Farina: 500 gr

Burro: 30 gr

Tuorli : 2

Un uovo intero

Zucchero: un cucchiaio

Sale: un pizzico

Vino bianco

Olio per friggere

Zucchero a velo

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