giovedì 3 marzo 2011

IL SERGENTE NELLA NEVE


La notte era per noi come il giorno. Camminavo sempre fuori dai camminamenti e andavo da una vedetta all'altra. Mi divertivo a camminare senza far rumore e giungere cosi alle loro spalle per vederle, confuse, chiedermi la parola d'ordine. Io rispondevo: - Ciavhad de Brexa -.
Poi parlavo loro sottovoce in bresciano, raccontavo qualche barzelletta e dicevo parole sconce. Ridevano a sentirmi, veneto come sono, parlare nel loro dialetto. Solo quando andavo da Lombardi stavo zitto. Lombardi! Non posso ricordare il suo viso senza che si rinnovi in me un fremito. Alto, taciturno, cupo. Quando lo guardavo in viso non mi sentivo di fissarlo a lungo e quando, molto di rado, sorrideva, faceva male al cuore. Sembrava facesse parte di un altro mondo e sapesse delle cose che a noi non poteva dire. Una notte, mentre mi trovavo da lui, venne una pattuglia russa, e le pallottole dei mitra sfioravano la trincea. Io, allora, abbassai il capo e guardai attraverso la feritoia. Lombardi, invece, stava ritto con tutto il petto fuori e non si muoveva di un filo. Io avevo paura per lui, sentivo di arrossire per la vergogna. Una sera, poi, durante l'attacco dei russi, venne il sergente Minelli a dirmi che Lombardi era morto con una pallottola in fronte mentre, fuori dalla trincea, ritto in piedi, sparava con un mitragliatore imbracciato. Ricordai allora com'era sempre stato taciturno e il senso di soggezione che mi dava la sua presenza. Pareva che la morte fosse già in lui.

La cosa più buffa era quando portavano davanti alla trincea i gabbioni dei reticolati. Ricordo un alpino, piccolo, sempre attivo, con la barba secca e rada, porta-arma tiratore veramente in gamba della squadra di Pintossi. Lo chiamavamo "il Duce". Bestemmiava in un modo tutto suo particolare ed era ridicolo a vedersi perché indossava un camicione bianco più lungo di lui, cosi che, camminando, questo s'impigliava sempre sotto gli scarponi scatenando una fila di bestemmie che lo sentivano anche i russi. S'impigliava spesso anche tra i gabbioni di filo spinato che portava con il suo compagno e allora neanche tirava il fiato per bestemmiare, e includeva la naia, i reticolati, la posta, gli imboscati, Mussolini, la fidanzata, i russi. Sentirlo era meglio che andare a teatro.

Venne anche il giorno di Natale. Sapevo che era il giorno di Natale perché il tenente la sera prima era venuto nella tana a dirci: - È Natale domani! - Lo sapevo anche perché dall'Italia avevo ricevuto tante cartoline di alberi e bambini. Una ragazza mi aveva mandato una cartolina in rilievo con il presepe, e la inchiodai sui pali di sostegno del bunker. Sapevamo che era Natale.
Quella mattina avevo finito di fare il solito giro delle vedette. Nella notte ero andato per tutti i posti di vedetta del caposaldo e ogni volta che trovavo fatto il cambio dicevo: - Buon Natale! Anche ai camminamenti dicevo buon Natale, anche alla neve, alla sabbia, al ghiaccio del fiume, anche al fumo che usciva dalle tane, anche ai russi, a Mussolini, a Stalin. Era mattina.
Me ne stavo nella postazione più avanzata sopra il ghiaccio del fiume e guardavo il sole che sorgeva dietro il bosco di roveri sopra le postazioni dei russi. Guardavo il fiume ghiacciato da su dove compariva dopo una curva fin giù dove scompariva in un'altra curva. Guardavo la neve e le peste di una lepre sulla neve: andavo dal nostro caposaldo a quello dei russi.
"Se potessi prendere la lepre!", pensavo.
Guardavo attorno tutte le cose e dicevo: - Buon Natale! -
Era troppo freddo star li fermo e risalendo il camminamento rientrai nella tana della mia squadra. - Buon Natale! - dissi - buon Natale! Meschini stava pestando il caffè nell'elmetto con il manico della baionetta. Bodei faceva bollire i pidocchi. Giuanin stava appollaiato nella sua nicchia vicino alla stufa. Moreschi si rammendava le calze. Quelli che avevano fatto gli ultimi turni di vedetta dormivano. C'era un odore forte li dentro: odore di caffè, di maglie e mutande sporche che bollivano con i pidocchi, e di tante altre cose.

A mezzogiorno Moreschi mand
ò per i viveri. Ma siccome quel rancio non era da Natale si decise di fare la polenta. Meschini ravvivò il fuoco, Bodei andò a lavare il pentolone in cui aveva fatto bollire i pidocchi. Tourn e io si voleva sempre stacciare la farina e, chissà dove e come, un giorno Tuorn riusci a trovare uno staccio. Ma quello che restava nello staccio, tra crusca e grano appena spezzato, era più di metà e allora si decise a maggioranza di non stacciarla più. La polenta era dura e buona.

Era il pomeriggio di Natale. Il sole cominciava ad andarsene per i fatti suoi dietro la mugila e noi si stava nella tana attorno alla stufa fumando e chiacchierando.
Venne poi dentro il cappellano del Vastone:
- Buon Natale, figlioli, buon Natale! -
E si appoggi
ò con la schiena ad un palo di sostegno.
- Sono stanco - disse - ho fatto tutti i bunker del battaglione. Quanti ce ne sono ancora dopo il vostro?
- Una squadra sola, - dissi - Dopo viene il Morbegno.
- Dite il rosario stasera e poi scrivete a casa. State allegri e sereni e scrivete a casa. Ora vado dagli altri. Arrivederci.
- Non ha neanche un pacchetto di Milit da darci, padre?
- Ah, si! Prendete. E ci butta due pacchetti di Macedonia e va fuori.
Meschini bestemmia, Bodei bestemmia, Giuanin dalla sua nicchia dice:
- Zitti, è Natale oggi! -
Meschini bestemmia ancora più fiorito: Sempre Macedonia, - dice - e mai trinciato forte o Popolari o Milit. Questa è paglia per signorine.
- Boia faus, - dice Tuorn,
- Macedonia. - Porca la mula - dice Moreschi, - Macedonia.

Poi mandai fuori la prima coppia di vedette perché era buio. Ero li che mi grattavo la schiena vicino alla stufa quando entr
ò Chizzarri a chiamarmi:
- Sergentmaggiù, - disse,- ti vogliono al telefono. È il capitano-.
Mi infilai il pastrano e presi il moschetto domandandomi cosa potessi aver fatto di male. Il telefono era nella tana del tenente.

Il tenente era fuori, forse a passeggiar lungo la riva del fiume per sentire gli starnuti delle vedette russe. Era proprio Beppo, il capitano, che mi voleva su a Valstagna, al comando di compagnia. Aveva qualcosa da dirmi. "Che sarà?" pensavo, mentre andavo su alla chiesa diroccata. Con la faccia tonda e rossa il capitano mi aspettava nella sua tana che era larga e comoda.
Aveva il cappello sulle ventitre con la penna dritta come un coscritto, le mani in tasca.
- Buon Natale! - disse.
E poi mi tese la mano e poi un bicchiere di latta con dentro cognac. Mi chiese come andava al mio paese e come al caposaldo. Mi cacci
ò tra le braccia un fiasco di vino e due pacchi di pasta.

Ritornai nella mia tana saltando fra la neve come un leprotto a primavera. Nella furia scivolai e caddi ma non ruppi il fiasco né mollai la pasta. Bisogna saper cadere. Una volta sono scivolato sul ghiaccio con quattro gavette di vino e non versai una goccia: io ero giù per terra ma le gavette le avevo salde in mano con le braccia tese a livello. Ma era successo in Italia di avere quattro gavette di vino, al corso sciatori.

Quando arrivai al caposaldo le vedette mi diedero l'alt-chi-va-là-parola-d'ordine e gridai, forte che mi sentirono anche i russi:
- Pastasciutta e vino!
chiudi la libreria esci dalla biblioteca