mercoledì 8 giugno 2011

GALILEO GALILEI

(1564 - 1642)

 Tutte le mattine, verso le sei, sul Lungarno di Pisa, il fornaio Gaddo Tarabella fermava il suo carrettino di pane odoroso e croccante e sostava sull'argine del fiume con i gomiti appoggiati su un muretto. Era sempre vissuto li e conosceva quel panorama a memoria. 
Ma ogni volta rimaneva incantato e stava interi quarti d'ora a guardare Campo dei Miracoli, dall'altra parte dell'Arno.
"Che spettacolo!" pensava immancabilmente.
"Quanto mi garba! Ma come cazzo è venuto in mente a questi qui di costruire il Battistero, il Duomo, e quella Torre con quella forma cosi diversa dagli altri campanili fuori dal centro della città? Un vero e proprio lusso. L'è di sicuro che in mezzo alle case non avrebbero sortito questo effetto miracoloso!".
Poi si rialzava, prendeva il carrettino, faceva dieci metri e si fermava di nuovo, si voltava e guardava la Torre:
"Speriamo che non caschi. Certo che cosi l'è proprio ganza!"

Una mattina si e una no, alla stessa ora, passava, su una canoa a due remi, un giovanotto vestito da studente: corsetto di velluto nero, maniche a sbuffo, pantaloni bianchi e neri molto aderenti - un po' consumati alle ginocchia - e scarpe a punta di vitello scamosciato. In testa, una specie di basco esagerato.
Non si salutavano mai e ogni volta Gaddo, senza guardarlo negli occhi, ammirava esterrefatto l'enorme "pacco" sotto i pantaloni. Il nome dello studente era Galileo Galilei, abitava nel quartiere della Lupa e studiava astronomia e astrofisica all'Università di via Diotisalvi al numero 2.
Era solito fermare la canoa esattamente sotto il muretto sul quale si appoggiava il fornaio, perché quello era l'unico punto del fiume dal quale si poteva vedere la Torre, e, dietro l'argine, una parte del Campo dei Miracoli.
Anche lui rimaneva incantato a guardare, quasi ipnotizzato, poi, come se si risvegliasse, riprendeva a vogare con forza e si dirigeva verso l'imbarcadero dell'Università.

Galileo era lo studente più brillante di tutto l'istituto e, nelle sue discipline, uno dei migliori d'Europa. Teneva una corrispondenza fitta fitta e in inglese con un astronomo tedesco che insegnava al Trinity College di Oxford, il dottor Keplero. Il loro argomento preferito? Dialoghi sui sistemi tolomaico e copernicano.
Intorno a mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo, - vuoi per la vogata del mattino, vuoi per l'impegno mentale che gli studi richiedevano, vuoi per la corrispondenza incessante con il dottor Keplero -, Galileo non ci vedeva più per la fame.
Era alto e robusto e mangiava come una bestia. Usciva dall'istituto corricchiando da vero sportivo e andava a pranzo all'osteria La buca dell'orso. Era anche molto simpatico, sempre sorridente, e salutava tutti quelli che incontrava. L'unico al quale in sei anni non aveva rivolto cenno era Gaddo il fornaio.
Quando Galileo entrava alla Buca dell'orso, la padrona Maddalena Torchiati e le giovani cameriere non riuscivano a guardarlo negli occhi: tutte a fissare quel "pacco" smisurato. C'era anche un ammiratore uomo, Franco Taddei, che a Pisa chiamavano "il Bucaiolo" per le sue note tendenze omosessuali. Insomma, nonostante la cultura straordinaria, quel giovane scienziato era famoso e ammirato in tutta Pisa per quella che potremmo chiamarla un'anomalia: il "pacco".
In realtà quel volume ipertrofico era un inganno: Galileo aveva due enormi testicoli rossastri dovuti a una rara malattia, l'idrocele gigante, e un pene cortissimo che un ventre da malato di fegato, nonostante le vogate mattutine sull'Arno e le corsette dall'Università all'osteria, faceva scomparire in mezzo al sacco dei testicoli in un buco inquietante.
Forse proprio a causa di questa curiosa anomalia morfologica, non aveva mai avuto una relazione normale con le donne. Era un bell'uomo ed era molto intelligente, di donne ne avrebbe avute finché voleva, ma non era attratto da bacini larghi, seni abbondanti, bei denti, capelli vaporosi, occhi azzurri.
All'età di ventisei anni Galileo aveva cominciato a frequentare una nobile fiorentina sposata a un ricco commerciante pisano, Tino Galimberti, uomo di una stupidità imbarazzante. Lei si chiamava Lucrezia Tornabuoni. Aveva una voce profonda, da uomo, poco seno, mani da pugile, era molto spiritosa e intelligente e mostrava una adeguata peluria alle labbra. Nacque una lunga relazione. Fino ad allora Galileo non aveva mai provato un orgasmo con una donna, anche se raccontava di averne avuti parecchi. Con Lucrezia accadde il miracolo. Un pomeriggio, in via del Fante, nel bellissimo palazzo della nobildonna - il marito era a Prato -, Lucrezia lo prese per mano e con voce da facchino gli disse: "Vieni". Lo condusse nel bagno, davanti allo specchio veneziano e gli abbassò i pantaloni. Lei non portava mutande. "Chinati" gli ordinò. "E masturbati a due mani." Galileo si abbassò incredulo e a tradimento lei gli infilò nell'ano una carota tiepida lunga diciannove centimetri. La relazione andò avanti per parecchi anni. Passarono dalle carote ai cetrioli unti nell'olio toscano, fino ad arrivare ad un nero senegalese che Lucrezia aveva fatto entrare in camera all'insaputa di Galileo.

Era una splendida giornata di sole e, alla Buca dell'orso, Galileo stava sbranando un cosciotto di agnello al forno. All'improvviso entrò il rettore dell'Università, Guido Calamai, batté le mani e disse: "Silenzio, per favore! Ho una grande notizia". Estrasse una pergamena da una borsa di tela rossa. "Il rettore capo dell'Università di Padova mi chiede, in quanto titolare della cattedra di astronomia, un nostro amatissimo studente. Il suo nome è...il suo nome è..."
"Sono io," disse Galileo alzandosi.
Diede un ultimo morso al cosciotto d'agnello e buttò l'osso per terra. Le cameriere lo abbracciarono, e cosi fece anche Franco Taddei, che con la mano sinistra gli strinse il "pacco".
"Mi molli il pacco, per favore" sussurrò Galileo con molta dolcezza. "Magari ci vediamo in privato un'altra volta"
"Ma come l'hai saputo, scusa?" Doveva essere un segreto" chiese il rettore.
"Me l'ha scritto venti giorni fa da Oxford il dottor Keplero."

Il giorno prima della partenza, il futuro professore di astronomia dell'Università di Padova, si fermò con la canoa al solito posto.
"Questa vista mi mancherà" pensò. Istintivamente alzò il viso e incontrò quello di Gaddo il fornaio. Rimasero a guardarsi in silenzio.
"Complimenti, signor professore" disse Gaddo con gli occhi umidi.
Commosso, Galileo non riusci a rispondere.

Galileo volle fare il viaggio fino a Padova parte in barca e parte a cavallo. Glielo avevano detto tutti che era una stronzata ma lui era testardo come un mulo.
La prima tappa a cavallo fino a Pavia durò quattro giorni, una faticaccia, ma il tempo fu magnifico. Peccato che l'agenzia di Pisa che aveva organizzato il viaggio non avesse prenotato locande, cosicché Galileo fu costretto a passare le notti nelle stalle con i cavalli. Inoltre si ingozzò con dodici chili di agnolotti al ragù e con quattro salami di Varzi.
Il tragitto di sei giorni lungo il Po fino a Occhiobello Polesine fu un disastro. Pioveva, le barche sulle quali Galileo viaggiava avevano le tende strappate dal vento e non c'erano ombrelli. In compenso, si strafogò di lucci fritti e trote bollite.
Anche l'ultimo tratto, dal Delta padano a Padova, era previsto che si facesse a cavallo. Al posto del cavallo, però, gli organizzatori gli fecero trovare un mulo lentissimo. Galileo si incazzò come un toro:
"Questa è una presa per il culo! La vostra non è un'agenzia seria!".
Con quel mulo, i cinque giorni previsti diventarono nove, l'animale si trascinava pigro nell'odorosa pianura veneta e Galileo, in groppa, dormiva profondamente. Quando furono in vista dei Colli Euganei, Galileo era ormai in preda a manie di persecuzione, visioni di arcobaleni e miraggi.
Entrando ad Arquà Petrarca, ebbe la certezza di vedere papa Paolo V che chiedeva l'elemosina. In realtà era Nane Sgorlon, un vecchio alcolizzato con una bottiglia di Roboso in mano. Nane gli offri una pompata a canna: dopo giorni di digiuno l'effetto del Raboso fu devastante.

Galileo arrivò a Padova con diciannove giorni di ritardo, alle due del mattino. Era completamente ubriaco, sghignazzava e cantava: "Quant'è bella Pisa vista dalla barca!".
Il rettore magnifico, Daniele Zambon, lo aspettava in Piazza della Ragione vestito in pompa magna. Intorno a lui, il Gran Consiglio dei professori, in mantelli di velluto rosso ed ermellini bianchi. Galileo fece un rutto impercettibile: "Scusate il leggero ritardo".
Inciampò in una mela cotta della Val di Non che il professore di Buone Maniere, Philip Zuker, aveva buttato per terra al suo ingresso e andò giù a pelle di leone. Lo portarono a braccia in aula magna. Continuava a ridere sgangheratamente come uno scemo e ogni tanto canticchiava.
In aula magna c'erano millequattrocentoventi studenti addormentati. Daniele Zambon sali sul palco, apri le braccia a fatica sotto il pesantissimo mantello di velluto rosso ed ermellino e disse:
"Illustrissimi colleghi e allievi di questa forda... fodramen ... fordamen ... tale...".
"Unica!"
"No, non è cosi."
"Famosa!"
"No, no, no!"
"Impalpabile?" suggeri il bidello.
"Fondamentale!" disse uno studente gobbo dalle ultime file. "Bravo! Farà molta strada, lei! Sono fiero di presentarvi l'astro nascente dell'astronomia italiana: Galilio..."
"Ga-li-le-o" lo corresse l'assistente.
"Galileo Galilei."
Galileo entrò saltellando come una ballerina russa.
"Non faccia il cretino!" ringhiò Daniele Zambon. "Non applaudono lei ma quella mostruosità che ha sotto i pantaloni!"

Dopo quell'esordio abbastanza mediocre, il genio di Galileo esplose in tutto il suo fulgore. Dopo un anno di studi, scopri che le fasi lunari erano causate dall'ombra della Terra. Costrui un cannocchiale artigianale con il quale nelle giornate senza luna mostrava ai suoi studenti le quattro lune di Giove. Per queste dimostrazioni aveva fatto allestire un osservatorio rudimentale a Monselice, sui Colli Euganei. Scrisse un trattato che mandò in copia a Keplero, dove si dimostrava che anche Venere ha le sue fasi.
Nei suoi saggi scrisse chiaramente che la Terra è rotonda, o meglio, a forma di arancia schiacciata ai poli a causa della rotazione intorno al proprio asse, che è leggermente inclinato e provoca cosi l'alternanza stagionale. Sosteneva anche che la Terra si muove intorno al Sole e non è immobile al centro dell'Universo. Enunciò le leggi del moto e della resistenza dei corpi. E in campo matematico anticipò il calcolo infinitesimale.

A Padova ebbe una relazione molto felice, soprattutto sessualmente, con la contessa Clara Mocenigo, nobile veneziana andata in sposa a un banchiere di Padova, che in realtà faceva l'usuraio. Era anche un imbecille e un finto benpensante, che diceva in giro che la Terra era immobile e piatta come una frittata di cipolle. Come Lucrezia Tornabuoni, anche la Mocenigo aveva una voce da uomo, era molto intelligente e aveva intuito subito come andava manovrata la sessualità di Galileo. Gli riempi la casa di carote d'inverno e di cetrioli d'estate.

Galileo godeva di una certa protezione poiché a Roma aveva un amico fraterno, il cardinale Barberini, e per molto tempo fu lasciato in pace. Il giorno stesso dei funerali di Barberini, che nel frattempo era diventato papa, il Consiglio dei Cardinali convocò Galileo a Roma. Venne pregato di portare con sé tutti i suoi libri, gli scritti e il cannocchiale. Lui era felice: il suo momento di gloria, pensava, era arrivato. In Vaticano gli dissero che non avevano trovato un alloggio degno e che si sarebbe potuto accomodare, temporaneamente, nel palazzo della Santa Inquisizione.
Gli misero a disposizione una carrozza e Galileo visitò le stanze di Raffaello, il Colosseo, e il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina, che lo entusiasmò sopra ogni altra cosa. Tornato al palazzo dove alloggiava trovò la stanza completamente vuota. Scomparsi i libri, le penne, le carte. Sparito anche il famoso cannocchiale. Erano rimaste una branda e una candela. Il giorno dopo era scomparsa anche la candela e lo fermarono sulla porta mentre stava uscendo per una passeggiata.
"Spiacenti, oggi cominciano gli interrogatori".
Lo condussero nell'aula del tribunale. Era vuota e senza una sedia. Galileo aspettò pazientemente due ore. Poi entrarono gli inquisitori, che lo trattarono con grande educazione e rispetto.
"Come va, Galileo?"
"Benino ... grazie"
"Non come stai andando tu! Come stanno andando i tuoi studi e le tue ricerche! Abbiamo letto tutte le cose che hai scritto negli ultimi quindici anni.."
"E allora?"
"Tu sai, Galileo, che la nostra cultura si fonda sulle verità dimostrate e sui dogmi di Santa Romana Chiesa. Sono i pilastri della nostra felicità presente, passata e futura. Tu capisci che se qualcuno cerca di abbatterli mette in pericolo la felicità di tutti. Compresa la tua."
"Eccellenza, io non avevo questa intenzione"
"Che cosa ti muove, la vanità? La pura voglia di acquisire un po' di notorietà? Anche in Inghilterra? Abbiamo letto le lettere che hai scritto a Keplero"
"Solo un incosciente, un pericolosissimo delinquente può macchiarsi di un grave delitto come l'eresia!" disse un domenicano. Sai qual'è il castigo che spetta agli eretici?"
La mattinata fini li perché Galileo svenne.

Si svegliò nella sua stanza, nel buio più completo. Si misurò il polso, aveva delle inquietanti extrasistole atriali. Al posto della lingua, una babbuccia turca. Cercò di riprendere sonno, ma irruppero quattro energumeni che lo costrinsero ad alzarsi e lo strattonarono lungo il corridoio fiocamente illuminato.
"Ma che succede, dove andiamo?" Non gli risposero.
"Sapete mica l'ora per piacere? Quando si cena?"
Uno dei quattro gli sparò un cazzotto tremendo nello stomaco che gli mozzò il fiato, poi lo scaraventarono nell'aula del Tribunale.
Dopo aver aspettato in piedi per mezz'ora, Galileo si appisolò.
"È cosi che si accoglie il tribunale di santa Romana Chiesa?" L'Inquisitore era entrato all'improvviso.
"Mi sono confuso....mi scusi Eccellenza"
"Non fare lo spiritoso. Allora, Galileo? Che cosa ci dici? Sei pronto a mettere per iscritto che ti sei inventato tutto solo per il gusto di ben figurare con gli studenti di Padova e con quel gruppo di delinquenti di Oxford?"
"Signori dottori, io non mi sono inventato niente! E poi non sono il solo a pensarla cosi! Posso chiamare a testimoni scienziati straordinari come Halley, sapete, quello che ha visto la famosa cometa dei Re Magi? E anche Keplero, Copernico e molti altri. Grandi filosofi greci come Parmenide, Democrito, Eraclito di Efeso, quasi duemila anni fa hanno scritto le stesse cose che voi dite frutto della mia mente malata"
"E tu lo sai, Galileo, che il tuo ammiratissimo dottor Keplero è dovuto tornare a Praga precipitosamente perchè gli hanno bruciato viva la madre accusata di stregoneria?"
"Vi stupite ancora dell'ignoranza e della crudeltà dei nostri contemporanei? Quelle che voi chiamate fasi lunari sono semplicemente dovute all'ombra del nostro pianeta. La Terra non è immobile, non è piatta: è tonda, e gira con altri pianeti intorno al Sole. Ogni pianeta ha una propria luna simile alla nostra. Posso dimostrarvelo! Se mi restituite quell'affare un po' strano che ho portato da Padova, vi farò vedere le quattro lune di Giove!"
Se ne andarono via tutti senza dire una parola. Lo lasciarono li per terra come una pantegana morente.

Gli cambiarono stanza, un buco buio in un orrendo e umido sotterraneo. Ogni tanto si sentivano i fruscii dei topi che nuotavano sul pavimento. Lo lasciarono li a marcire molto a lungo.
Da uno spioncino una mano gli passava un pezzo di pane secco e una ciotola di acqua rossastra. L'ansia lo faceva respirare male e pian piano la scarsa ossigenazione del cervello spegneva la sua straordinaria intelligenza.
In quei mesi di buio, Galileo continuò a sperare in un'apertura della porta: avrebbe significato altri interrogatori, è vero, ma anche luce e persone alle quali esibire la sua prodigiosa memoria, l'enorme cultura e la capacità mentale.
Ma quelli sapevano fare bene il proprio mestiere e non lo torturarono mai fisicamente: sarebbe morto subito. In sua presenza preferivano parlare dell'ignobile reato di eresia e ricordargli come finivano abitualmente quei processi: un rogo pubblico, popolani urlanti e un'agonia orrenda.

Dopo diversi mesi, lo portarono di nuovo nell'aula del Tribunale. Gli inquisitori avevano gli occhi bassi.
"Scusate la mia curiosità," disse Galileo, "ma come stanno andando le mie cose? Io credo di avervi dimostrato, in questi lunghi mesi, che mi sono limitato a pensare e che non ho mai cercato di imporre ad altri una nuova visione del mondo. È vero, ho usato eccessivamente la libertà di pensiero, che dovrebbe essere il diritto più nobile dell'Homo sapiens, ma da un punto di vista morale vi giuro che ho sempre tenuto un comportamento ligio e fedele al diritto canonico. Non mi sono mai permesso di trasgredire ciò che prescrivono le vostre leggi."
Lentamente, l'Inquisitore tirò fuori da un cassetto quattro cetrioli e due grosse carote cotte a vapore.
"Che c'è, Galileo? Qualcosa non và?" L'Inquisitore giocherellava con gli ortaggi come un saltimbanco da circo. "Non hai più voglia di parlare? Questi che abbiamo trovato a casa tua a Padova dovrebbero dimostrare che sei un vegetariano puro? O ci stai nascondendo qualcosa che il diritto canonico condanna con il fuoco dell'Inferno?"
Galileo si afflosciò sul pavimento di marmo del Tribunale come un coniglio disossato.

Passarono trenta giorni, al termine dei quali lo gettarono in un pozzo. Durante il soggiorno nel pozzo, continuarono a torturarlo voci provenienti dall'esterno e amplificate dall'eco.
"Pare che stiano preparando un rogo per uno che ha fatto largo uso di cetrioli e carote sbollentate"
"Quand'è che bruciano quello dei cetrioli?"
"Certo che morire bruciati vivi solo per essere stati carotati deve essere una morte terribile e stupida!"
"Ma lo sapete che stanno accatastando molta legna dalla parte del Pantheon? Ci sarà qualcosa di grosso. Sembra sia quello dei cetrioli. È uno che dice in giro che la Terra non è una frittata di cipolle."
Durante la notte della Candelora, Galileo si arrese:
"Non ce la faccio più! Portatemi una pergamena, firmo anche in bianco. Avete ragione voi, avete mille volte ragione voi!" Fece una lunga pausa, e quasi in un soffio aggiunse: "Eppur si muove".
Sulla parete del pozzo si apri una strana porta di legno. In quei lunghissimi giorni, Galileo non si era mai accorto di quell'apertura. Illuminato da una lanterna, apparve il capo dell'Inquisizione con due domenicani:
"Cos'hai detto?"
"Non sono stato io, lo giuro. C'era uno, prima, vestito da demonio .... viene qui tutte le notti. Abbiate pietà, quel maledetto mi perseguita. Dice che sono dalla parte della verità, e mi invita a non avere paura se voglio essere felice. Datemi subito l'abiura, firmo tutto quello che volete"
Gli consegnarono una pergamena.
"Vi spiace se firmo con una croce?"

Dopo un mese lo spedirono all'Osservatorio di Arcetri. Lo condannarono a rimanerci fino alla morte. Non gli restituirono i suoi scritti, né le lettere a Keplero, né i libri, né il cannocchiale che un domeniano di nome Sirio Cabelli fece sparire. Dopo parecchi anni, un nipote, Toni Cabelli, depositò la scoperta a una consorteria di Arti e Mestieri di Firenze: i suoi eredi fondarono un opificio che chiamarono Fabbrica di cannocchiali Galileo Galilei e diventarono molto ricchi.
Ad Arcetri Galileo veniva perquisito spesso, e quando chiedeva una buona zuppa di carote sghignazzavano. Gli consentirono di portare con sé solo la pergamena arrotolata della sua abiura.. Non aveva nulla da leggere e ogni tanto ci dava un'occhiata. "io, Galileo Galilei, sono un autentico pezzo di merda, perchè non mi rendo conto che la Terra è piatta e che ha la forma di una grande frittata di cipolle, che però non si può mangiare perché è opera di Dio. Ed è immobile al centro dell'Universo".

Una notte d'estate illuminata da una magnifica luna quasi piena, Galileo si trascinò a sedere sotto una finestra aperta e respirò profondamente. Non c'era odore di cipolla fritta, solo profumo di magnolie e di eucalipti. La luna era enorme e sembrava vicinissima.
"Che meraviglia!" disse. "La parte più scura è l'ombra della Terra. Uno spettacolo del genere ti fa sospettare della presenza di un'intelligenza suprema!"
Se accanto a lui ci fosse stato Gaddo il fornaio avrebbe visto due grosse lacrime scendergli sulle guance.

Soltanto trecentocinquanta anni dopo, un papa straniero si scusò pubblicamente sulla Piazza San Pietro:
"In fondo quel poveraccio - forse - non aveva torto"
Alle sue spalle, il cardinal Ruini gli diede una gomitata.
"Volevo dire ... forse aveva ragione!"

Galileo mori a Firenze l'8 gennaio 1642, circondato da pochi allievi e quasi cieco. Fu formalmente assolto dall'accusa di eresia solo nel 1992. Un po' in ritardo.