venerdì 18 febbraio 2011

LA STORIA

I.
Un giorno di gennaio dell'anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade.
Nessuno dei passanti, poi, guardava il soldato, perchè i Tedeschi, pure se camerati degli italiani nella corrente guerra mondiale, non erano popolari in certe periferie proletarie. Né il soldato si distingueva dagli altri della sua serie: alto, biondino, col solito portamento di fanatismo disciplinare, e, specie nella posizione del berretto, una conforme dichiarazione provocatoria.

Naturalmente, per chi si mettesse ad osservarlo, non gli mancava qualche nota caratteristica. Per esempio, in contrasto con la sua andatura marziale, aveva uno sguardo disperato. La sua faccia si denunciava incredibilmente immatura, mentre la sua statura doveva misurare metri 1,85, più o meno.
E l'uniforme - cosa davvero buffa per un militare del Reicht, specie in quei primi tempi di guerra - benchè nuova di fattura, e bene attillata al suo corpo magro, gli stava corta di vita e di maniche, lasciandogli nudi i polsi rozzi, grossi e ingenui, da contadinello o da plebeo.

Gli era capitato, invero, di crescere intempestivamente, tutto durante l'ultima estate e autunno; e frattanto, in quella smania di crescere, la faccia, per difetto di tempo, gli era rimasta ancora uguale a prima, tale che pareva accusarlo di non avere neanche la minima anzianità richiesta per l'infimo suo grado. Era una semplice recluta dell'ultima leva di guerra. E fino al tempo della chiamata ai suoi doveri militari, aveva sempre abitato coi fratelli e con la madre vedova nella sua casa di Baviera, nei dintorni di Monaco.
La sua residenza, precisamente, era il villaggio campestre di Dachau, che più tardi, alla consumazione della guerra, doveva rendersi famoso per il suo limitrofo campo di "lavoro e di esperienze biologiche".
Ma, ai tempi che il ragazzo cresceva nel villaggio, quella macchina delirante di massacro era ancora alle sue prove iniziali e clandestine.
Nelle adiacenze, e fino all'estero, essa veniva lodata come una sorta di sanatorio modello per i devianti... A quei tempi, il numero dei suoi soggetti era di cinque o seimila forse; ma il campo doveva farsi di anno in anno più popoloso. Da ultimo, nel 1945, la cifra totale dei suoi cadaveri fu di 66 428.

Però le esplorazioni personali del soldato, come non potevano spingersi (ovviamente) fino all'inaudito avvenire, cosi pure nei confronti del passato, e dentro lo stesso presente, erano rimaste assai confuse, poche e ristrette. Per lui, quel villaggetto materno in Baviera significava l'unico punto chiaro e domestico nel ballo imbrogliato della sorte.

Fuori di là, finché non s'era fatto guerriero, aveva frequentato la prossima città di Monaco, dove andava per qualche lavoro di elettricista e dove, da non molto, aveva imparato a fare l'amore, con una prostituta anziana.

La giornata d'inverno, a Roma, era coperta e sciroccale. Era finita ieri l'Epifania "che tutte le feste porta via", e appena da pochi giorni il soldato aveva concluso la sua licenza natalizia, passata a casa con la famiglia. Di nome si chiamava Gunther. Il cognome rimane sconosciuto (....)

II.

La donna, di professione maestra elementare, si chiamava Ida Ramundo, vedova Mancuso.
Veramente secondo l'intenzione dei genitori, il suo primo nome doveva essere Aida. Ma, per un errore dell'impiegato, era stata iscritta all'anagrafe come Ida, detta Iduzza dal padre calabrese.
Di età, aveva trentasette anni compiuti, e davvero non cercava di essere meno anziana. Il suo corpo piuttosto denutrito, e informe nella struttura, dal petto sfiorito e dalla parte inferiore malamente ingrossata, era coperto alla meglio da un cappottino marrone da vecchia, con un colletto di pelliccia assai consunto, e una fodera grigiastra che mostrava gli orli stracciati fuori dalle maniche.
Portava anche un cappello, fissato con un paio di spilloni da merciaia, e provvisto di un piccolo velo nero di antica vedovanza; e, oltre che dal velo, il suo stato civile di
signora era comprovato dalla fede nuziale (d'acciaio, al posto di quella d'oro già offerta alla patria per l'impresa abissina) sulla sua mano sinistra.
I suoi ricci crespi e nerissimi incominciavano a incanutire; ma l'età aveva lasciato stranamente incolume la sua faccia tonda, dalle labbra sporgenti, che pareva la faccia di una bambina sciupatella.
E difatti, Ida era rimasta, nel fondo, una bambina, perchè la sua precipua relazione col mondo era sempre stata e rimaneva (consapevole o no) una soggezione spaurita.
I soli a non farle paura, in realtà, erano stati suo padre, suo marito e, più tardi, forse, i suoi scolaretti.
Tutto il resto del mondo era una insicurezza minatoria per lei, che senza saperlo era fissa con la radice in chi sa quale preistoria tribale. E nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c'era una dolcezza passiva, di una barbarie profondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione. (...)