sabato 19 febbraio 2011

Il Tempo.it

Vertice top secret in Campidoglio tra Alemanno, prefetto e questore. Oggi pomeriggio, intanto, a Fiumicino le salme dei 4 bambini morti nel rogo del campo illegale in via Appia saranno imbarcate su un aereo per la Romania.

Tra i romani potranno finalmente sentirsi a casa.

venerdì 18 febbraio 2011

LA STORIA

I.
Un giorno di gennaio dell'anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade.
Nessuno dei passanti, poi, guardava il soldato, perchè i Tedeschi, pure se camerati degli italiani nella corrente guerra mondiale, non erano popolari in certe periferie proletarie. Né il soldato si distingueva dagli altri della sua serie: alto, biondino, col solito portamento di fanatismo disciplinare, e, specie nella posizione del berretto, una conforme dichiarazione provocatoria.

Naturalmente, per chi si mettesse ad osservarlo, non gli mancava qualche nota caratteristica. Per esempio, in contrasto con la sua andatura marziale, aveva uno sguardo disperato. La sua faccia si denunciava incredibilmente immatura, mentre la sua statura doveva misurare metri 1,85, più o meno.
E l'uniforme - cosa davvero buffa per un militare del Reicht, specie in quei primi tempi di guerra - benchè nuova di fattura, e bene attillata al suo corpo magro, gli stava corta di vita e di maniche, lasciandogli nudi i polsi rozzi, grossi e ingenui, da contadinello o da plebeo.

Gli era capitato, invero, di crescere intempestivamente, tutto durante l'ultima estate e autunno; e frattanto, in quella smania di crescere, la faccia, per difetto di tempo, gli era rimasta ancora uguale a prima, tale che pareva accusarlo di non avere neanche la minima anzianità richiesta per l'infimo suo grado. Era una semplice recluta dell'ultima leva di guerra. E fino al tempo della chiamata ai suoi doveri militari, aveva sempre abitato coi fratelli e con la madre vedova nella sua casa di Baviera, nei dintorni di Monaco.
La sua residenza, precisamente, era il villaggio campestre di Dachau, che più tardi, alla consumazione della guerra, doveva rendersi famoso per il suo limitrofo campo di "lavoro e di esperienze biologiche".
Ma, ai tempi che il ragazzo cresceva nel villaggio, quella macchina delirante di massacro era ancora alle sue prove iniziali e clandestine.
Nelle adiacenze, e fino all'estero, essa veniva lodata come una sorta di sanatorio modello per i devianti... A quei tempi, il numero dei suoi soggetti era di cinque o seimila forse; ma il campo doveva farsi di anno in anno più popoloso. Da ultimo, nel 1945, la cifra totale dei suoi cadaveri fu di 66 428.

Però le esplorazioni personali del soldato, come non potevano spingersi (ovviamente) fino all'inaudito avvenire, cosi pure nei confronti del passato, e dentro lo stesso presente, erano rimaste assai confuse, poche e ristrette. Per lui, quel villaggetto materno in Baviera significava l'unico punto chiaro e domestico nel ballo imbrogliato della sorte.

Fuori di là, finché non s'era fatto guerriero, aveva frequentato la prossima città di Monaco, dove andava per qualche lavoro di elettricista e dove, da non molto, aveva imparato a fare l'amore, con una prostituta anziana.

La giornata d'inverno, a Roma, era coperta e sciroccale. Era finita ieri l'Epifania "che tutte le feste porta via", e appena da pochi giorni il soldato aveva concluso la sua licenza natalizia, passata a casa con la famiglia. Di nome si chiamava Gunther. Il cognome rimane sconosciuto (....)

II.

La donna, di professione maestra elementare, si chiamava Ida Ramundo, vedova Mancuso.
Veramente secondo l'intenzione dei genitori, il suo primo nome doveva essere Aida. Ma, per un errore dell'impiegato, era stata iscritta all'anagrafe come Ida, detta Iduzza dal padre calabrese.
Di età, aveva trentasette anni compiuti, e davvero non cercava di essere meno anziana. Il suo corpo piuttosto denutrito, e informe nella struttura, dal petto sfiorito e dalla parte inferiore malamente ingrossata, era coperto alla meglio da un cappottino marrone da vecchia, con un colletto di pelliccia assai consunto, e una fodera grigiastra che mostrava gli orli stracciati fuori dalle maniche.
Portava anche un cappello, fissato con un paio di spilloni da merciaia, e provvisto di un piccolo velo nero di antica vedovanza; e, oltre che dal velo, il suo stato civile di
signora era comprovato dalla fede nuziale (d'acciaio, al posto di quella d'oro già offerta alla patria per l'impresa abissina) sulla sua mano sinistra.
I suoi ricci crespi e nerissimi incominciavano a incanutire; ma l'età aveva lasciato stranamente incolume la sua faccia tonda, dalle labbra sporgenti, che pareva la faccia di una bambina sciupatella.
E difatti, Ida era rimasta, nel fondo, una bambina, perchè la sua precipua relazione col mondo era sempre stata e rimaneva (consapevole o no) una soggezione spaurita.
I soli a non farle paura, in realtà, erano stati suo padre, suo marito e, più tardi, forse, i suoi scolaretti.
Tutto il resto del mondo era una insicurezza minatoria per lei, che senza saperlo era fissa con la radice in chi sa quale preistoria tribale. E nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c'era una dolcezza passiva, di una barbarie profondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione. (...)

giovedì 10 febbraio 2011

I PROMESSI SPOSI


"L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia.
Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi, e trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose.
Però alla mia debolezza non è lecito sollevarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggi et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria ai Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relazione.
Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvagità grandiosa, con intermezzi d'Imprese virtuose e bentà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi, sijno sotto l'amparo del re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle Fisse e gl'altri Spettabili Magistrati, qual'erranti Pianeti spandino la luce su ogni doue, venendo cosi a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dag'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti.
Per locché descriuendo questo Racconto auumenuto ne' tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Storia del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioé la parentela, et il medesmo si farà de luochi, solo indicando il Territorio.
Né alcuno dirà questa sij imperfettione del racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno che questo tale Critico non sij persona affatto digiuna della Filosofia: che quanto agli huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza della detta Narratione. Imperciocchè, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti.....".


"Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica di trascrivere questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?".
Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio di decifrar uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospendere la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse fare.

"Ben è vero", dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, "ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua cosi alla distesa per tutta l'opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano.

Si; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata quà e là; e poi, ch'è peggio, ne' luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d'eccitar meraviglia, o di far pensare, a tutti que' passi insomma che richiedono bensi un po' di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua cosi fatta del proemio. E allora, accozzando, con un'abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo.

Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di soleticismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno; sono troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m'è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani".

Nell'atto però di chiudere lo scartafaccio per riporlo, mi sapeva male che una storia cosi bella dovesse rimanere tuttavia sconosciuta; perché in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella.
"Perché non si potrebbe", pensai, "prender la serie de' fatti di questo manoscritto, e rifarne la dicitura?".
Non essendosi presentata alcuna obiezione ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l'origine del presente libro, esposta con un'ingenuità pari all'importanza del libro medesimo.

Taluni però di quei fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c'eran sembrati cosi nuovi, cosi strani, per non dire peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare i testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora in quel modo.

Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose simili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam persino ritrovato alcuni personaggi, de' quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.

Chiunque, senza esser pregato, s'intromette a rifar l'opera altrui, s'espone a render uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l'obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto a sottrarci.
Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tuttoi tempo del lavoro, cercando d'indovinare le critiche possibili e contingenti con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente.
Né in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiamo dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano.

Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l'una contro l'altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, cosi opposte in apparenza, eran però d'uno stesso genere, nascevan tutt'e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse cosi ad evidenza d'aver fatto bene.

Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzare tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiamo messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificare un altro, anzi lo stile di un altro, potrebbe parere cosa ridicola; la seconda, che di libri basta uno alla volta, quando non è d'avanzo.


mercoledì 9 febbraio 2011

TRE CAVALLI



Argentina è un triangolo rettangolo che ha per cateto grande le Ande a occidente, per minore il cateto irregolare dei fiumi a nord e per smangiata ipotenusa l'Oceano Atlantico a est.

Argentina è lunghezza di tremilasettecento chilometri, tra ventuno e cinquantatre gradi di latitudine sud. L'ultimo zoccolo d'America, condiviso con il Cile, sta a soli dieci gradi dalla terra di Graham, corno del continente Antartide.


Argentina ha accolto quasi sette milioni di emigranti fino al 1939. Circa la metà erano italiani.
Dal 1976 al 1982 Argentina ha scontato una dittatura militare che ha prosciugato una generazione. Al termine mancheranno all'anagrafe circa quarantamila persone quasi tutte giovani, senza una tomba.

La dittatura collassa dopo la fallimentare invasione delle isole Falkland/Malvinas, circa mezza Sicilia, a più di trecento chilometri dalla costa. È la primavera del 1982.
Queste immensità di luoghi e di vicende riguardano accidenti accorsi a persone di questa storia.


Leggo solo libri usati.
Li appoggio al cestino del pane, giro pagina con un dito e quella resta ferma. Cosi mastico e leggo.
I libri nuovi sono petulanti, i fogli non stanno quieti a farsi girare, resistono e bisogna spingere per tenerli giù. I libri usati hanno le costole allentate, le pagine passano lette senza tornare a sollevarsi.
Cosi alla trattoria di mezzogiorno mi siedo alla stessa sedia, chiedo minestra e vino e leggo.
Sono romanzi di mare, avventure di montagna, niente storie di città, che già le ho intorno.
Alzo gli occhi per un po' di sole riflesso nel vetro della porta d'ingresso da dove entrano in due, lei con aria di vento addosso, lui con aria di cenere.
Torno al libro di mare: c'è un po' di burrasca, forza otto, il giovane sta mangiando di gusto mentre gli altri vomitano. Poi esce sul ponte a reggersi forte perché è giovane, solo e allegro di burrasca.
Stacco gli occhi per spezzare un po' di aglio crudo sulla minestra. Assorbo un piccolo sorso di rosso aspro, legnoso.
Giro pagine docili, bocconi lenti, poi stacco la testa dal bianco di carta e di tovaglia e seguo la linea delle mattonelle di rivestimento che gira per la stanza e passa dietro due pupille nere di donna, messe su quella linea come due "mi" spaccati dal rigo basso del pentagramma. Stanno dritti su di me.
Alzo allo stesso punto il bicchiere e lo lascio sospeso prima di berlo. L'allineamento mi spinge a un principio di sorriso agli zigomi. La geometria delle cose intorno fa succedere coincidenze, incontri.
La donna sorride frontale.
L'uomo di schiena intercetta il brindisi, torce il busto, dà precedenza al gomito, l'oste lo schiva con un giro d'anca mentre mi porta il piatto. Prima che l'energico termini il suo mezzo giro mi raschio in gola un saluto alla donna, come se conoscente. Lei risponde uguale mentre lui mi mette a fuoco.
Intanto bevo, rimetto naso al piatto, tra leggere e inghiottire.
L'osteria si svuota di operai, io resto di più, non ho da riattaccare all'ora.
Oggi devo finire le potature e ammassarle. Domani le brucio.
La donna si alza, avanza e s'avvicina al mio posto svelta e schietta.
Unisco gli occhi a guardare dritto nel suo naso, dove le narici soffiano un poco d'aria dietro le sue parole: "Ho cambiato numero, chiamami a questo" e mi lascia sulla tovaglia un nome e una cifra. Ci metto sopra la mano. È quasi pulita, non sto a strigliarmi per la pausa di mezzogiorno.
La guardo che sta in piedi, mi alzo e per pareggiare la sua improvvisata dico: "Sempre mi fa piacere di vederti". Mette due mani intorno alla mia, "Saluti a casa", "graziepresenterò", l'altro è sull'uscio, lei si volta e io mi rimetto giù.
Che accidenti mi piglia, graziepresenter
ò
, da imbalsamato vivo: a chi? Tengo nessuno.


sabato 5 febbraio 2011

Felicità raggiunta




Felicità raggiunta, si cammina
per te su fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.

Se giungi alle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
è dolce e turbante come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.




Altre poesie:

venerdì 4 febbraio 2011

Joseph Beuys, Dopo mille ore cambiare le batterie (Capri-Batterie),1985 scatola di legno con limone collegato a un lampadina elettrica, 19 x 19 x 19 cm. Collezione Amelio-Santamaria svegliati

LA DISTANZA DELLA LUNA



Una volta, secondo Sir George H. Darwin, la Luna era molto vicina alla Terra. Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano: le maree che lei Luna provocava nelle acque terrestri e in cui la Terra perde lentamente energia.

 
Lo so bene! - esclamò il vecchio Qfwfq, - voi non ve ne potete ricardare ma io si. L'avevamo sempre addosso, la Luna, smisurata: quand'era il plenilunio - notti chiare come di giorno, ma d'una luce color burro -, pareva che ci schiacciasse; quand'era lunanuova rotolava per il cielo come un nero ombrello portato dal vento; e la lunacrescente veniva avanti a corna cosi basse che pareva li li per infilzare la cresta di un promontorio e restarci ancorata. Ma tutto il meccanismo delle fasi andava diversamente che oggigiorno: per via che le distanze dal Sole erano diverse, e le orbite, e l'inclinazione non ricordo di che cosa; eclissi poi, con Terra e Luna cosi appiccicate, ce n'erano tutti i momenti: figuriamoci se quelle due bestione non trovavano continuamente il modo di farsi ombra a vicenda.

L'orbita? Ellittica, si capisce, ellittica: un po' ci s'appiattiva addosso e un po' prendeva il volo. Le maree, quando la Luna si faceva più sotto, salivano che non le teneva più nessuno. C'erano delle notti di plenilunio basso basso e d'altamarea alta alta che se la Luna non si bagnava in mare ci mancava un pelo; diciamo: pochi metri. Se non abbiamo mai provato a salirci? E come no? Bastava andarci proprio sotto con la barca, appoggiarci una scala a pioli e montarci su.


Il punto dove la Luna passava più basso era al largo degli Scogli di Zinco. Andavamo con quelle barchette che si usavano allora, tonde e piatte, di sughero. Ci si stava in parecchi: io, il capitano Vhd Vhd, sua moglie, mio cugino il sordo, e alle volte anche la piccola Xlthlx che allora avrà avuto dodici anni. L'acqua era in quelle notti calmissima, argentata che pareva mercurio, e i pesci, dentro violetti, che non potendo resistere all'attrazione della Luna venivano tutti a galla, e cosi polpi e meduse color zafferano. C'era sempre un volo di bestioline minute - piccoli granchi, calamari, e anche alghe leggere e diafane e piantine di corallo - che si staccavano dal mare e finivano nella Luna, a penzolare giù da quel soffitto calcinoso, oppure restavano li a mezz'aria, in uno sciame fosforescente, che scacciavamo agitando delle foglie di banano.

Il nostro lavoro era cosi: sulla barca portavamo una scala a pioli: uno la reggeva, uno saliva in cima, e uno ai remi intanto spingeva fin li sotto la Luna; e per questo bisognava che si fosse in tanti (vi ho nominato solo i principali). Quello in cima alla scala, come la barca si avvicinava alla Luna, gridava spaventato: Alt! Alt! Ci vado a picchiare una testata! - Era l'impressione che dava, a vedersela addosso cosi immensa, cosi accidentata di spunzoni taglienti e orli slabbrati e seghettati. Ora forse è diverso, ma allora la Luna, o meglio il fondo, il ventre della Luna, insomma la parte che passava più accosto alla Terra fin quasi a strisciarle addosso, era coperta da una crosta di scaglie puntute. Al ventre di un pesce, era venuta somigliando, e anche l'odore, a quel che ricordo, era, se non proprio di pesce, appena più tenue, come il salmone affumicato.


In realtà, d'in cima alla scala s'arrivava giusto a toccarla tendendo le braccia, ritti in equilibrio sull'ultimo piolo. Avevamo preso bene le misure (non sospettavamo ancora che si stesse allontanando); l'unica cosa cui bisognava stare molto attenti era come si mettevano le mani. Sceglievo una scaglia che paresse salda (ci toccava salire tutti, a turno, in squadre di cinque o sei), m'aggrappavo con una mano, poi con l'altra, e immediatamente sentivo scala e barca scapparmi di sotto, e il moto della Luna svellermi dall'attrazione terrestre. Si, la Luna aveva una forza che ti strappava, te ne accorgevi in quel momento di passaggio tra l'una e l'altra: bisognava tirarsi su di scatto, con una specie di capriola, afferrarsi alle scaglie, lanciare in su le gambe, per ritrovarsi in piedi sul fondo lunare. Visto dalla Terra apparivi come appeso a testa in giù, ma per te era la solita posizione di sempre, e l'unica cosa era, alzando gli occhi, vederti addosso la cappa del mare luccicante con la barca e i compagni capovolti che dondolavano come un grappolo dal tralcio.

Chi in quei salti dispiegava un particolare talento, era mio cugino il sordo. Le sue rozze mani, appena toccavano la superficie lunare (era sempre il primo a saltare dalla scala) si facevano improvvisamente soffici e sicure. Trovavano subito il punto in cui far presa per issarsi, anzi pareva che solo con la pressione delle sue palme egli aderisse alla crosta del satellite. Una volta mi parve addirittura che la Luna mentre lui protendeva le mani gli venisse incontro.

Altrettanto abile egli era nella discesa sulla Terra, operazione più difficile ancora. Per noialtri, consisteva in un salto in alto, più in alto che si poteva, a braccia alzate (visto dalla Luna, perché visto dalla Terra era più simile ad un tuffo, o a una nuotata in profondità, le braccia penzoloni), uguale identico al salto dalla Terra, insomma, solo che adesso ci mancava la scala, perché sulla Luna non c 'era niente a cui appoggiarla. Ma mio cugino, invece di buttarsi a braccia avanti, si chinava sulla superficie lunare a testa in giù come in una capriola, e prendeva a spiccare salti facendo forza sulle mani. Noi dalla barca lo vedavamo ritto nell'aria come se reggesse l'enorme palla della Luna e la facesse sobbalzare colpendola colle palme, finché le sue gambe non ci arrivavano a tiro e noi riuscivamo ad afferrarlo per le caviglie e tirarlo giù a bordo.

Ora voi mi chiederete cosa diavolo andavamo a fare sulla Luna, ed io ve lo spiego. Andavamo a raccogliere il latte, con un grosso cucchiaio ed un mastello. Il latte lunare era molto denso, come una specie di ricotta. Si formava negli interstizi tra scaglia e scaglia per la fermentazione di diversi corpi e sostanze di provenienza terrestre, volati su dalle praterie e foreste e lagune che il satellite sorvolava. Era composto essenzialmente di: succhi vegetali, girini di rana, bitume, lenticchie, miele d'api, cristalli d'amido, uova di storione, muffe, pollini, sostanze gelatinose, vermi, resine, pepe, sali minerali, materiale di combustione. Bastava immergere il cucchiaio sotto le scaglie che coprivano il suolo crostoso della Luna e lo si ritirava pieno di quella preziosa fanghiglia. Non allo stato puro, si capisce; le scorie erano molte: nella fermentazione (attraversando la Luna le distese di aria torrida sopra i deserti) non tutti i corpi si fondevano; alcuni rimanevano conficcati li: unghie e cartilagini, chiodi, cavallucci marini, noccioli e peduncoli, cocci di stoviglie, ami da pesca, certe volte anche un pettine. Cosi questa puré, dopo raccolta, bisognava scremarla, passarla in un colino. Ma la difficoltà non era quella: era come mandarla sulla Terra. Si faceva cosi: ogni cucchiaiata la si lanciava in su, manovrando il cucchiaio come una catapulta, con due mani. La ricotta volava e se il tiro era abbastanza forte s'andava a spiaccicare sul soffitto, cioè sulla superficie marina. Una volta là, restava a galla e tirarla su dalla barca era poi facile. Anche in questi lanci mio cugino il sordo dispiegava una particolare bravura; aveva polso e mira; con un colpo deciso riusciva a centrare il suo tiro in un mastello che gli tendevamo dalla barca. Invece io certe volte facevo cilecca; la cucchiaiata non riusciva a vincere l'attrazione lunare e mi ricadeva in un occhio.

Non vi ho ancora detto tutto, delle operazioni in cui mio cugino eccelleva. Quel lavoro di spremere latte lunare dalle scaglie, per lui era uno specie di gioco: invece del cucchiaio certe volte bastava ficcasse sotto le squame la mano nuda, o solo un dito. Non procedeva con ordine ma in punti isolati, spostandosi dall'uno all'altro con salti, come volesse giocare degli scherzi alla Luna, delle sorprese, o addirittura provocarle il solletico. E dove metteva le mani lui, il latte schizzava fuori come dalle mammelle di una capra. Tanto che a noialtri non restava che tenergli dietro, e raccogliere coi cucchiai la sostanza che egli andava, ora quà ora là, facendo gemere; ma sempre come per caso, dato che gli itinerari del sordo non parevano rispondere ad alcun chiaro proposito pratico. C'erano punti, per esempio, che toccava solamente per il gusto di toccarli: interstizi tra scaglia e scaglia, pieghe nude e tenere della polpa lunare. Alle volte mio cugino vi premeva non le dita della mano, ma - in una mossa ben calcolata dei suoi salti - l'alluce (montava sulla Luna a piedi scalzi) e pareva che ci
ò fosse per lui il colmo del divertimento, a giudicare dallo squittio che emetteva la sua ugola, e dai nuovi salti che seguivano.

Il suolo della luna non era uniformemente squamoso, ma copriva irregolari zone nude d'una scivolosa argilla pallida. Al sordo questi spazi morbidi davano la fantasia di capriole o voli quasi da uccello, come se volesse imprimersi nella pasta lunare con tutta la sua persona. Cosi inoltrandosi, a un certo punto lo perdevamo di vista. Sulla Luna s'estendevano regioni che mai avevamo avuto motivo o curiosità d'esplorare, ed era là che mio cugino spariva; e io m'ero fatto l'idea che tutte quelle capriole e pizzicotti in cui si sbizzarriva sotto i nostri occhi non fossero che una preparazione, un preludio, a qualcosa di segreto che doveva svolgersi nelle zone nascoste.

Uno speciale umore ci prendeva, in quelle notti al largo degli Scogli di Zinco; allegro, ma un po' come sospeso, come se dentro il cranio sentissimo, al posto del cervello, un pesce, che galleggiava attratto dalla luna. E cosi si navigava suonando e cantando. La moglie del capitano suonava l'arpa; aveva braccia lunghissime, argentate in quelle notti come anguille, e ascelle oscure e misteriose come ricci marini; e il suono dell'arpa era cosi dolce e acuto, dolce e acuto che quasi non si poteva sostenere, ed eravamo obbligati a lanciare lunghi gridi, non tanto per accompagnamento della musica, quanto per proteggerne il nostro udito.

Meduse trasparenti affioravano sulla superficie marina, vibrando un poco, spiccavano il volo verso la Luna ondeggiando. La piccola Xlthlx si divertiva ad acchiapparle in aria, ma non era facile. Una volta, tendendo le sue braccine per ghermirne una, fece un saltello e si tro
vò anche lei librata. Magrolina com'era, le mancava qualche oncia di peso perché la gravità la riportasse sulla Terra vincendo l'attrazione lunare: cosi lei volava tra le meduse sospesa sopra il mare. Subito si spaventò , pianse, poi rise, poi si mise a giocare acchiappando al volo crostacei e pesciolini, alcuni portandoli alla bocca e mordicchiandoli. Noi vogavamo per tenerle dietro: la Luna correva via per la sua ellisse trascinandosi dietro quello sciame di fauna marina per il cielo, ed uno strascico di lunghe alghe inanellate, e la bambina sospesa li nel mezzo. Aveva due treccine sottili, Xlthlx, che pareva volassero per conto loro, tese verso la Luna; ma intanto scalciava, dava colpi di stinchi all'aria, come volesse combattere quell'influsso, e le calze - aveva perso i sandali nel volo - le si sfilavano dai piedi e penzolavano attratte dalla forza terrestre. Noi sulla scala cercavamo di afferrarle.

Quella di mettersi a mangiare le bestioline sospese era stata un'idea buona; più Xlthlx guadagnava peso più calava verso la terra; anzi, siccome tra quei corpi librati il suo era quello di maggior massa, molluschi e alghe e plancton presero a gravitare su lei, e presto la bambina fu ricoperta di minusculi gusci silicei, corazze chitinose, carapaci, e filamenti d'erbe marine. E più si perdeva in questo groviglio, più veniva liberandosi dall'influsso lunare, fino a che sfior
ò il pelo dell'acqua e vi si immerse.

Vogammo pronti a raccoglierla e a soccorrerla: il suo corpo era rimasto calamitato, e dovemmo faticare per spoglierla di tutto quel che le si era incrostato addosso. Coralli teneri le avvolgevano il capo, e dai capelli ogni colpo di pettine faceva piovere acciughe e gamberetti; gli occhi erano sigillati da gusci di patelle che aderivano alle palpebre con le loro ventose; tentacoli di seppia erano avvolti attorno alle braccia e al collo; e la vestina pareva ormai intessuta solo d'alghe e di spugne. La liberammo del più grosso e poi lei per settimane continu
ò a staccarsi di dosso pinne e conchiglie; ma la pelle picchiettata di minutissime diatomee, quella le rimase per sempre, sotto l'apparenza - per chi non l'osservava bene - di un sottile spolverio di nei.

Cosi conteso era l'interstizio tra Terra e Luna
dai due influssi che si bilanciavano. Dirò di più: un corpo che scendeva a terra dal satellite restava per qualche tempo ancora carico della forza lunare e si rifiutava all'attrazione del nostro mondo. Anch'io, con tutto che fossi grande e grosso, ogni volta che ero stato lassù, tardavo a riabituarmi al sopra e al sotto terrestri, e i compagni dovevano acchiapparmi per le braccia e trattenermi a forza, mentre io a testa bassa continuavo ad allungare le gambe verso il cielo.

- Tieniti! Tieniti forte a noi! - mi gridavano, e io in questo brancicare alle volte finivo per afferrare una mammella della signora Vhd Vhd, che le aveva tonde e sode, e il contatto era buono e sicuro, esercitava un'attrazione pari o più forte di quella della Luna, specie se nella mia calata a capofitto riuscivo con l'altro braccio a cingerla sui fianchi, e cosi ormai di nuovo ero passato a questo mondo, e cadevo di schianto sul fondo della barca, e il capitano Vhd Vhd per rianimarmi mi gettava addosso un secchio d'acqua.

Cosi cominci
ò la storia del mio innamoramento per la moglie del capitano, e delle mie sofferenze. Perché non tardai ad accorgermi a chi andavano gli sguardi più ostinati della signora: quando le mani di mio cugino si posavano sicure sul satellite, io fissavo lei, e nel suo sguardo leggevo i pensieri che quella confidenza tra il sordo e la Luna le andava suscitando, e quando egli spariva per le sue misteriose esplorazioni lunari la vedevo farsi inquieta, stare sulle spine, e tutto ormai m'era chiaro, di come la signora Vhd Vhd stava diventando gelosa della Luna e io geloso di mio cugino. Aveva occhi di diamante, la signora Vhd Vhd; fiammeggiavano, quando guardava la Luna, quasi in una sfida, come dicesse: "Non lo avrai". E io mi sentivo escluso.

Di tutto questo, chi meno si dava per inteso era il sordo. Quando lo si aiutava nella discesa tirandolo - come vi ho spiegato - per le gambe, la signora Vhd Vhd perdeva ogni ritegno prodigandosi nel fargli pesare addosso la sua persona, avviluppandolo con le lunghe sue braccia argentee; io ne provavo una fitta al cuore (le volte che io mi aggrappavo a lei, il suo corpo era docile e gentile, ma non buttato avanti come per mio cugino), mentre lui era indifferente, perduto ancora nel suo rapimento lunare.

Guardavo il capitano, chiedendomi se anche lui notasse il comportamento di sua moglie; ma nessuna espressione passava mai su quel volto roso dalla salsedine, solcato da rughe incatramate. Essendo il sordo sempre l'ultimo a staccarsi dalla Luna, la sua discesa era il segno della partenza delle barche. Allora, con un gesto insolitamente gentile, Vhd Vhd raccoglieva l'arpa dal fondo della barca e la porgeva alla moglie. Lei era obbligata a prenderla e a trarne qualche nota. Nulla poteva distaccarla dal sordo più che il suono dell'arpa. Io prendevo a intonare quella canzone melanconica, che fa: "Ogni pesce è a galla è a galla, ed ogni pesce oscuro è in fondo è in fondo...." e tutti, tranne il cugino, mi facevano il coro.

Ogni mese, appena il satellite era passato di là, il sordo rientrava nel suo isolato distacco per le cose del mondo; solo l'approssimarsi del plenilunio lo risvegliava.
Quella volta io avevo fatto in modo di non essere nel turno della salita per restare in barca vicino alla moglie del capitano. Ed ecco, appena mio cugino era salito su per la scala, la signora Vhd Vhd disse: - Oggi ci voglio andare anche io lassù!

Non era mai successo che la moglie del capitano salisse sulla Luna. Ma Vhd Vhd non s'oppose, anzi quasi la spinse di peso sulla scala, esclamando: - E vacci! - e tutti prendemmo allora ad aiutarla e io la raggevo da dietro, e la sentivo sulle mie braccia tonda e morbida, e per sostenerla premevo contro di lei le palme e il viso, e quando la sentii levarsi nella sfera lunare mi colse uno struggimento per quel contatto perduto, tanto che feci per buttarmi dietro a lei dicendo; - Vado un po' su a dare anch'io una mano!

Fui trattenuto come da una morsa. - Tu resti qui che poi ci hai qui da fare - mi ordin
ò senza alzar la voce il capitano Vhd Vhd.

Già le intenzioni di ciascuno a quel momento
erano chiare. Eppure io non mi ci raccapezzavo, anzi ancora adesso non sono sicuro d'aver interpretato tutto esattamente. Certo la moglie del capitano aveva lungamente covato il desiderio d'appartarsi lassù con mio cugino (o almeno: di non lasciare che egli si appartasse da solo con la Luna), ma, probabilmente il suo piano aveva un obiettivo più ambizioso, tale da dover essere architettato d'intesa con il sordo: nascondersi insieme lassù e restare sulla Luna un mese. Ma può darsi che mio cugino, sordo com'era, non avesse capito niente di quel che lei cercava di spiegargli, o addirittura non si fosse reso conto d'essere oggetto dei desideri della signora. E il capitano? Non attendeva altro che di liberarsi della moglie, tanto è vero che appena lei fu confinata lassù lo vedemmo abbandonarsi alle sue inclinazioni e sprofondare nel vizio, e allora comprendemmo perché non aveva fatto nulla per trattenerla. Ma sapeva già da principio, lui, che l'orbita della Luna s'andava allargando?

Nessuno di noi poteva sospettarlo. Il sordo, forse solo il sordo: nella maniera larvale in cui sapeva lui tutte le cose, aveva presentito che quella notte gli toccava di dire addio alla Luna. Per questo si nascose nei suoi luoghi segreti e non ricomparve che per tornare a bordo. E la moglie del capitano ebbe un bell'inseguirlo: la vedemmo attraversare la distesa squamosa più volte, in lungo e in largo, e a un tratto si ferm
ò guardando noi rimasti in barca, quasi sul punto di chiederci se l'avevamo visto.

Certo c'era qualcosa d'insolito quella notte. La superficie del mare, anziché tesa come sempre quand'era luna piena, anzi quasi inarcata verso il cielo, ora pareva restarsene allentata, floscia, come se la calamita lunare non esercitasse tutta la sua forza. E pure la luce non si sarebbe detta la stessa degli altri pleniluni, come per un ispessirsi della tenebra notturna. Anche i compagni lassù dovettero rendersi conto di quel che stava accadendo, difatti levarono verso di noi occhi spauriti. E dalle loro bocche e dalle nostre, nello stesso momento, usci un grido: - la Luna s'allontana!

Non s'era ancora spento questo grido, che sulla Luna apparve mio cugino, correndo. Non sembrava spaventato, e nemmeno stupito: pos
ò le mani al suolo buttandosi nella sua capriola di sempre, ma stavolta dopo essersi slanciato in aria resto li, sospeso, come era già successo alla piccola Xlthlx, volteggiò per un momento tra la terra e la Luna, si capovolse, poi con uno sforzo delle braccia come chi nuotando deve vincere una corrente, si diresse, con insolita lentezza, verso il nostro pianeta.

Dalla Luna gli altri marinai s'affrettarono a seguire il suo esempio. Nessuno pensava a far giungere alle barche il latte lunare raccolto, né il capitano li redarguiva per questo. Già avevano aspettato troppo, la distanza era ormai difficile da attraversare; per quanto essi cercassero d'imitare il volo o nuoto di mio cugino, restarono ad annaspare, sospesi in mezzo al cielo. - Serrate! Imbecilli! Serrate! - url
ò il capitano. Al suo ordine, i marinai cercarono di raggrupparsi, di far massa, di spingere tutti assieme fino a raggiungere la zona di attrazione terrestre: finché a un tratto una cascata di corpi precipitò in mare con un tonfo.

Le barche ora remavano a raccoglierli. - Aspettate! Manca la signora! - gridai. La moglie del capitano aveva tentato anche lei il salto ma era rimasta librata a pochi metri dalla Luna, e muoveva mollemente le lunghe braccia argentee nell'aria. M'arrampicai sulla scaletta, e nel vano intento di porgerle un appiglio protendevo l'arpa verso di lei. - Non ci arriva! Bisogna andare a prenderla! - e feci per slanciarmi, brandendo l'arpa. Sopra di me l'enorme disco lunare pareva non fosse più lo stesso di prima, tanto era rimpicciolito, anzi, ecco che s'andava sempre più contraendo quasi fosse il mio sguardo a spingerlo lontano, e il cielo sgombro si spalancava come un abisso in fondo al quale le stelle s'andavano moltiplicando, e la notte rovesciava su di me un fiume di vuoto, mi sommergeva di sgomento e di vertigine.

"Ho paura! - pensai - Ho troppa paura per buttarmi! Sono un vile!" e in quel momento mi buttai. Nuotavo per il cielo furiosamente, e tendevo l'arpa verso di lei, e invece di venirmi incontro lei si rivoltava su se stesa mostrandomi ora il viso impassibile ora il tergo. - Uniamoci! - gridai, e già la raggiungevo, e l'afferravo alla vita, e allacciavo le mie membra alle sue.

- Uniamoci e caliamo insieme! - e concentravo le mie forze nel congiungermi più strettamente a lei, e le mie sensazioni nel gustare la completezza di quell'abbraccio. Tanto che tardai a rendermi conto che stavo si strappandola al suo stato di librazione ma facendola ricadere sulla Luna. Non me ne resi conto? Oppure questa era stata fin dal principio la mia intenzione? Ancora non ero riuscito a formulare un pensiero, e digià un grido irrompeva dalla mia gola: - Sar
ò io a restare con te un mese! - anzi: - Su te! - gridavo nella mia concitazione: - Io su te per un mese! - e in quel momento la caduta sul suolo lunare aveva sciolto il nostro abbraccio, ci aveva rotolato me qua e lei là tra quelle fredde scaglie.

Alzai gli occhi come facevo ogni volta che toccavo la crosta della Luna, sicuro di ritrovare sopra di me il natio mare come uno sterminato soffitto, e lo vidi, si lo vidi come stavolta, ma quanto più alto, e quanto esiguamente limitato dai suoi contorni di coste e scogli e promontori, e quanto piccole v'apparivano le barche, ed irriconoscibili i volti dei compagni e fiochi i loro gridi! Un suono mi raggiunse da poco distante: la signora Vhd Vhd aveva ritrovato la sua arpa, e la carezzava accennando un accordo mesto come un pianto.

Cominci
ò un lungo mese. La Luna girava lenta intorno alla Terra. Sul globo sospeso vedevamo non più la nostra riva familiare ma il trascorrere di oceani profondi come abissi, e deserti di lapilli incandescenti, e continenti di ghiaccio, e foreste guizzanti di rettili, e le mura di roccia delle catene montane tagliate dalla lama dei fiumi precipitosi, e città palustri, e necropoli di tufo, e imperi di argilla e fango. La lontananza spalmava su ogni cosa un medesimo colore: le prospettive estranee rendevano estranea ogni immagine; torme di elefanti e sciami di locuste percorrevano le pianure cosi ugualmente vasti e densi e fitti da non fare differenza.

Avrei dovuto essere felice: come nei miei sogni ero solo con lei, l'intimità con la Luna tante volte invidiata a mio cugino e quella della signora Vhd Vhd erano adesso mio esclusivo appannaggio, un mese di giorni e notti lunari si stendeva ininterrotto davanti a noi, la crosta del satelliteci nutriva col suo latte dal sapore acidulo e familiare, il nostro sguardo si levava lassù al mondo dove eravamo nati, finalmente percorso in tutta la sua multiforme estensione, esplorando i paesaggi mai visti da nessun terrestre, oppure contemplava le stelle di là dalla Luna, grosse come frutta di luce maturata sui ricurvi rami del cielo, e tutto era al di là delle speranze più luminose, e invece e invece e invece era l'esilio.

Non pensavo che alla Terra. Era la Terra a far si che ciascuno fosse proprio quel qualcuno e non altri; quassù, strappati dalla Terra, era come se io non fossi più quell'io, né lei per me quella lei. Ero ansiosi di ritornare sulla terra, e trepidavo nel timore di averla perduta. Il compimento del mio sogno d'amore era durato solo quell'istante in cui ci eravamo congiunti roteando tra la terra e la Luna; privato del suo terreno terrestre, il mio innamoramento ora non conosceva che la nostalgia straziante di ci
ò che ci mancava; un dove, un intorno, un prima, un poi.

Questo era ci
ò che io provavo. Ma lei? Chiedendomelo, ero diviso nei miei timori. Perché se anche lei non pensava che alla Terra, poteva essere un buon segno, d'un'intesa con me finalmente raggiunta, ma poteva anche essere segno che tutto era stato inutile, che era ancora solo al sordo che miravano i suoi desideri. Invece nulla. Non levava mai lo sguardo al vecchio pianeta, se ne andava pallida tra quelle lande, borbottando nenie e carezzando l'arpa, come immedesimata nella sua provvisoria (io credevo) condizione lunare. Era segno che avevo vinto sul mio rivale? No, avevo perso; una sconfitta disperata. Perché ella aveva ben compreso che l'amore di mio cugino era solo per la Luna, e tutto quel che lei voleva ormai era diventare Luna, assimilarsi all'oggetto di quell'amore extraumano.

Compiuto ch'ebbe la Luna il suo giro del pianeta, ecco che ci ritrovammo di nuovo sopra gli scogli di Zinco. Fu con sbigottimento che li riconobbi: neanche nelle mie più nere previsioni m'ero aspettato di vederli cosi rimpiccioliti dalla distanza. In quella pozzanghera di mare i compagni erano tornati a navigare senza più la scala a pioli ormai inutile; ma dalle barche s'alz
ò come una selva di lunghe lance; ognuno d'essi ne brandiva una, guarnita in cima da un arpione o raffio, forse nella speranza di raschiare ancora un po' dell'ultima ricotta lunare e magari porgere a noi meschini quassù un qualche aiuto. Ma subito fu chiaro come non ci fosse lunghezza di pertica bastante a raggiungere la Luna; e ricaddero, ridicolmente corte, avvilite, a galleggiare sul mare; e qualche barca in quel trambusto ne fu sbilanciata e capovolta. Ma proprio allora da un'altra imbarcazione cominciò a levarsene una più lunga, trascinata fin li sul pelo dell'acqua: doveva essere di bambù, di molte e molte canne di bambù una sull'altra, e per alzarla bisognava andar piano perché - sottile com'era - le oscillazioni non la spezzassero, e manovrarla con grande forza e perizia, perché il peso tutto verticale non facesse tracollare la barchetta.

Ed ecco: era chiaro che la punta di quell'asta avrebbe toccato la Luna, e la vedemmo sfiorare e premere il suolo squamoso, appoggiandovisi un momento, dare quasi una piccola spinta, anzi una forte spinta che la faceva allontanare di nuovo, e poi tornare a picchiare in quel punto come di rimbalzo, e di nuovo allontanarsi. E allora lo riconobbi, anzi, tutti e due, io e la signora, lo riconoscemmo, mio cugino, non poteva essere che lui, era lui che faceva il suo ultimo gioco con la Luna, un trucco dei suoi, con la Luna sulla punta della canna come se la tenesse in equilibrio. E ci accorgemmo che la sua bravura non mirava a nulla, non intendeva raggiungere nessun risultato pratico, anzi si sarebbe detto che la stava spingendo via, la Luna, che ne stesse assecondando l'allontanamento, che la volesse accompagnare nella sua orbita più distante. E anche questo era da lui: da lui che non sapeva concepire desideri in contrasto con la natura della Luna e il suo corso e il suo destino, e se la Luna ora tendeva ad allontanarsi da lui, ebbene egli godeva di questo allontanamento come aveva fino allora goduto della sua vicinanza.

Cosa doveva fare, di fronte a questo, la signora Vhd Vhd? Solo in quel momento ella mostr
ò fino a che punto il suo innamoramento per il sordo non era stato un frivolo capriccio ma un voto senza ritorno. Se quel che ora mio cugino amava era la Luna lontana, lei sarebbe rimasta lontana, sulla Luna. Lo intuii vedendo che non faceva un passo verso il bambù, ma solo rivolgeva l'arpa verso la Terra alta in cielo, pizzicando le corde. Dico che la vidi, ma in realtà fu solo con l'angolo dell'occhio che captai la sua immagine, perché appena l'asta aveva toccato la crosta lunare io ero saltato ad aggrapparmici, e ora rapido come un serpende m'arrampicavo per i nodi di bambù, salivo a scatti delle braccia e delle ginocchia, leggero nello spazio rarefatto, spinto come da una forza di natura che mi comandava di tornare sulla Terra, dimenticando il motivo che m'aveva portato lassù, o forse più che mai cosciente d'esso e del suo esito sfortunato, e già la scalata alla pertica ondeggiante era giunta al punto in cui non dovevo fare più alcuno sforzo ma solo lasciarmi scivolare a testa avanti attratto dalla Terra, fino a che in questa corsa la canna si ruppe ed io caddi nel mare tra le barche.

Era il dolce ritorno, la patria ritrovata, ma il mio pensiero era solo il dolore per lei perduta, e i miei occhi s'appuntavano sulla Luna per sempre irragiungibile, cercandola. E la vidi. Era là dove l'avevo lasciata, coricata su una spiaggia proprio sovrastante alle nostre teste; e non diceva nulla. era del colore della Luna; teneva l'arpa al suo fianco, e muoveva una mano in arpeggi lenti e radi. Si distingueva bene la forma del petto, delle braccia, dei fianchi, cosi come ancora la ricordo, cosi come anche ora che la Luna è diventata quel cerchietto piatto e lontano, sempre con lo sguardo vado cercando lei appena nel cielo si mostra il primo spicchio, e più cresce più m'immagino di vederla, lei o qualcosa di lei ma nient'altro che lei, in cento in mille viste diverse, lei che rende Luna la Luna e che ogni plenilunio spinge i cani tutta la notte a ululare e io con loro.

giovedì 3 febbraio 2011

I finali di Rodari

Primo finale
Il professor De Magistris, dopo aver svuotato coscienziosamente la sua coppa di gelato, riprese le redini della discussione. - Dunque, - disse, - il nostro Rinaldo qui, non importa come, forse in seguito ad una caduta in bicicletta, è entrato in possesso di uno straordinario super-potere, che gli permette di creare qualsivoglia oggetto semplicemente pronunciandone il nome. - Cielo ! - fece zia Rosa. - Si, signora, - incalzò il professore,- cielo e paradiso, per voi, adesso. - E come mai ? - Come mai ? Ma è semplice. Rinaldo dirà: un miliardo e sarate miliardari. Dirà: villa con piscina, e tutto sarà pronto per fare i tuffi. Dirà automobile con autista, e potrete partire. I suoi genitori non avranno più bisogno di andare a lavorare all'estero. E forse Rinaldo si ricorderà anche del suo vecchio amico professore e dirà per lui... Aspetta, aspetta, non dire nulla.... Cane, ecco cosa devi dire. Un bel bassotto, non troppo giovane, non troppo vecchio... Sarà il mio amico. Sapete, non mi piace stare sempre solo in casa... - Bassotto cosi e cosi! - disse Rinaldo. E il bassotto abbaiò festosamente, arrampicandosi sui pantaloni del professor De Magistris, che aveva le lacrime agli occhi per la gratitudine.

Secondo finale
Per farla breve il professor De Magistris spiegò di cosa si trattava. - Mi raccomando, - disse, - non fiatate con nessuno. La vita di Rinaldo è in pericolo. - Misericordia! E perché ? - È chiaro, perché: il super-potere di cui dispone può essere fonte di ricchezze incalcolabili. Se lo si sapesse in giro, chissà quanti malviventi tenterebbero di impadronirsi di Rinaldo, per sfruttare il suo dono. - Misericordia e misericordia ancora ! Zia e nipote giurarono di stare zitti. - Domani, - disse il professore congedandosi, - decideremo il da farsi. - Domani. Bisogna sapere però che quel De Magistris aveva una doppia vita: di giorno era un professore in pensione, di notte il capo di una banda di briganti che svaligiavano le banche in tutta Europa. De Magistris telefonò ai suoi uomini, fece rapire Rinaldo, gli fece dire la parola "oro" finché ebbe riempito dieci autotreni col rimorchio. Quindi sali sul primo autotreno, suonò il claxson e via. Nessuno lo ha mai più rivisto. Intanto però Rinaldo si era tanto stancato a ripetere la parola "oro" che la voce gli era andata via. Quando tornò la voce il dono era scomparso. Ma qualcosa la zia Rosa poté guadagnare, rivendendo tutte quelle biciclette, sveglie, cocomeri eccetera.

Terzo finale
Finito di mangiare il gelato, Rinaldo se ne comandò un altro. Ma lo comandò cosi in fretta che il gelato, invece di scendere dolcemente sul tavolo, gli cascò in testa. Niente di male, se fosse stato solo per il gelato. Ma c'era la coppa di cristallo. Questa colpi proprio il bernoccolo che Rinaldo si era fatto cadendo dalla bicicletta. E il colpo fu fatale. Da quel momento Rinaldo si sfiatò invano a nominare oggetti: non comparve più nulla, né un'automobile né una patata lessa.

L'avventura di Rinaldo
Il terzo finale, per quanto scherzoso, mi sembra il più logico. Il primo è troppo dolce, il secondo troppo amaro. (Gianni Rodari)