mercoledì 30 marzo 2011

lunedì 28 marzo 2011

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
si qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo possiamo dirti,
ci
ò che non siamo, ciò che non vogliamo.



domenica 27 marzo 2011

IL CORRIDOIO DEL GRANDE ALBERGO


Rientrato nella mia camera d'albergo, a tarda ora, mi ero già mezzo spogliato quando ebbi bisogno di andare alla toilette.
La mia camera era quasi in fondo ad un corridoio interminabile e poco illuminato; circa ogni venti metri tenui lampade violacee proiettavano fasci di luce sul tappeto rosso. Giusto a metà, in corrispondenza di una di queste lampadine, c'erano, da una parte la scala, dall'altra la doppia porta a vetri del locale.

Indossata una vestaglia, uscii nel corridoio ch'era deserto. Ed ero quasi giunto alla toilette quando mi trovai di fronte a un uomo pure in vestaglia, che, sbucato dall'ombra, veniva dalla parte opposta. Era un signore alto e grosso con una tonda barba alla Edoardo VII. Aveva la mia stessa meta? Come succede, avemmo entrambi un momento di imbarazzo, per poco non ci urtammo. Fatto è che io, chissà come, mi vergognai di entrare al gabinetto sotto i suoi sguardi e proseguii come se mi dirigessi altrove. E lui fece lo stesso.

Ma, dopo pochi passi, mi resi conto della stupidaggine commessa. Infatti, che potevo fare? Le eventualità erano due: o proseguire fino in fondo al corridoio e poi tornare indietro sperando che il signore con la barba nel frattempo se ne fosse andato. Ma non era detto che costui dovesse entrare in una stanza e lasciare cosi libero il campo; forse anch'egli voleva andare alla toilettee, incontrandomi, si era vergognato, esattamente come avevo fatto io; e ora si trovava nella mia stessa imbarazzante posizione. Perciò, tornato sui miei passi, rischiavo di incontrarlo un'altra volta e di fare ancora di più la figura del cretino.

Oppure - seconda possibilità - nascondermi nell'andito, abbastanza profondo, di una delle tante porte, scegliendone una poco illuminata e di qui spiare il campo, fin che fossi stato certo che il corridoio era assolutamente sgombro. E cosi feci, prima di aver analizzato la situazione a fondo.

Solo quando mi trovai, appiattito come un ladro, in uno di quegli angusti vani (era la porta della camera 90) cominciai a ragionare. Prima di tutto, se la stanza era occupata e il cliente fosse o entrato o uscito, che avrebbe detto trovandomi nascosto dinanzi alla sua porta? Peggio: come escludere che quella fosse proprio la camera del signore con la barba? Il quale tornando indietro, mi avrebbe bloccato senza remissione. Né ci sarebbe stato bisogno di una speciale diffidenza per trovare le mie manovre molto strane. Insomma, restare là era una imprudenza.

Adagio adagio sporsi il capo a esplorare il corridoio. Da un capo all'altro assolutamente vuoto. Non un rumore, un suono di passi, un'eco di voce umana, un cigolio di porta che si aprisse. Era il momento buono: sbucai dal nascondiglio e a passi disinvolti mi incamminai verso la mia stanza. Lungo il tragitto, pensavo, sarei entrato un momento alla toilette.

Ma nello stesso istante, e me ne accorsi troppo tardi per potere riacquattarmi, il signore con la barba, che evidentemente aveva ragionato come me, usciva dal vano di una delle porte in fondo, forse la mia, e mi muoveva decisamente incontro.

Per la seconda volta, con imbarazzo ancora maggiore, ci incontrammo dinanzi alla toilette; e per la seconda volta nessuno dei due osò entrare, vergognandosi che l'altro lo vedesse; adesso si c'era veramente il rischio del ridicolo.

Cosi, maledicendo tra me il rispetto umano, mi avviai sconfitto alla mia stanza. Come fui giunto, prima di aprire l'uscio, mi voltai a guardare: laggiù, nella penombra, intravidi quello con la barba che simmetricamente entrava in camera; e si era voltato a guardare alla mia volta.

Ero furioso. Ma la colpa non era fose mia? Cercando invano di leggere un giornale, aspettai per più di mezz'ora. Quindi aprii la porta con cautela. C'era nell'albergo un gran silenzio, come in una caserma abbandonata; e il corridoio più che mai deserto. Finalmente! Scattai quasi di corsa, ansioso di raggiungere il locale.

Ma dall'altra parte, con un sincronismo impressionante, quasi la telepatia avesse agito, anche il signore con la barba guizzò fuori dalla sua camera e con sveltezza insospettabile puntò verso il gabinetto.

Per la terza volta perciò ci trovammo a fronte a fronte dinanzi alla porta a vetri smerigliati. Per la terza volta tutti e due simulammo, per la terza volta si prosegui senza entrare. La situazione era tanto comica che sarebbe bastato un niente, un cenno, un sorrisetto, per rompere il ghiaccio e voltare tutto a ridere. Ma né io, né probabilmente lui, si aveva voglia di scherzare; al contrario; una rabbiosa esasperazione urgeva, un senso d'incubo, quasi che fosse stata una macchinazione ordita misteriosamente in odio a noi.

Come nella prima sortita, finii per scivolare nel vano di una porta ignota e qui nascondermi in attesa degli eventi. Ora mi conveniva, per limitare almeno i danni, di aspettare che il barbuto, certamente appostato come me all'altra estremità del corridoio, sbucasse dalla trincea per il primo: lo avrei quindi lasciato avanzare un buon tratto e solo all'ultimo sarei uscito anch'io; ciò allo scopo di imbattermi con lui non più dinanzi alla toilette bensi molto più in qua, cosicché, superato l'incontro, io rimanessi libero di agire senza noiosi testimoni. Se invece lui, prima d'incontrarmi, si fosse deciso a entrare nel locale, tanto meglio, esaudite le sue necessità, egli si sarebbe poi ritirato in camera sua e per tutta la notte non si sarebbe più fatto vivo.

Sporgendo appena un occhio dallo stipite (per la distanza non potevo vedere se l'altro stesse facendo altrettanto), restai in agguato lungo tempo. Stanco di stare in piedi, a un certo punto mi accoccolai sulle ginaocchia senza interrompere mai la vigilanza. Ma l'uomo non si decideva a uscire. Eppure egli era sempre laggiù, nascosto, nelle mie stesse condizioni.

Udii suonare le due e mezzo, le tre, le tre e un quarto, le tre e mezzo. Non ne potevo più. Infine caddi addormentato.
Mi risvegliai, con le ossa rotte, che erano già le sei del mattino. Sul momento non ricordavo nulla. Che cos'era successo? Come mai mi trovavo là per terra? Poi vidi, altri come me, in vestaglia, rincantucciati negli anditi delle cento e cento porte, che dormivano: chi in ginocchio, chi seduto, sul pavimento, chi assopito in piedi come i muli; palllidi, distrutti, come dopo una notte di battaglia.

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giovedì 24 marzo 2011

CINEMA



I barocchi amavano gli equivoci. Calderon e altri con lui elevarono l'equivoco a metafora del mondo. Suppongo li animasse la fiducia che il giorno in cui ci desteremo dal sogno di essere vivi, il nostro equivoco terreno sarà finalmente chiarito. Auguro loro di non aver trovato un Equivoco senza appello. Questo, comunque, si vedrà.



Il treno si fermò bruscamente con uno stridio di ruote e sbuffi di vapore. Il finestrino di uno scompartimento si abbassò e sbucarono le teste di cinque ragazze. Alcune avevano i capelli ossigenati, con boccoli sulle spalle e ricciolini sulla fronte. Cominciarono a ridere e a cicalare, chiamando "Elsa! Elsa!"
Una rossa vistosa, con un fiocco verde nei capelli, grid alle altre:
"Eccola!" e si sporse esageratamente dal finestrino facendo larghi gesti di saluto. Elsa allungò il passo e si portò sotto il vagone toccando le mani festanti che si tendevano verso di lei.
"Corinna!" esclamò rivolta alla rossa vistosa, "come ti sei conciata?"
"Dice Saverio che piaccio cosi", rise Corinna strizzando l'occhio e ammiccando con la testa verso l'interno dello scompartimento.
"Sali, presto, non vorrai mica restare in questo posto?" disse con una voce in falsetto. Poi cacciò un piccolo urlo.
"Uh, ragazze, c'è un Rodolfo Valentino!"
Tutte le ragazze cominciarono ad agitare le mani per richiamae l'attenzione dell'uomo indicato da Corinna.

Eddie fu costretto ad uscire da dietro il cartello degli orari sul marciapiede e venne avanti con flemma, il cappello sugli occhi. In quello stesso momento due soldati tedeschi entrarono nella stazione dal cancello di fondo e si diressero verso lo stanzino del capostazione. Dopo pochi secondi il capostazione usci con la bandierina rossa e andò verso la locomotiva con passo svelto che sottolineava la goffaggine del suo corpo grassottello. I due soldati si erano piazzati di fronte alla cabina dei comandi come se dovessero fare la guardia a qualcosa.

Le ragazze erano ammutolite e osservavano la scena con preoccupazione. Elsa posò la valigia per terra e guardò ddie con con aria smarrita. Lui le fece cenno di proseguire e si sedette su una panchina sotto un cartello pubblicitario della riviera, trasse di tasca il giornale e vi affondò il viso. Corinna aveva seguito la scena e parve aver capito tutto.
"Vieni cara," gridò , "ti vuoi decidere a salire?"
Con la mano accennò un frivolo ciao ai due soldati che la guardavano e sfoderò un sorriso smagliante.
Intanto il capostazione stava ritornando con la bandierina arrotolata sotto il braccio e Corinna gli domandò cosa stesse succedendo.
"Chi lo capisce è bravo", rispose l'omino, stringendosi nelle spalle, "pare che dobbiamo aspettare un quarto d'ora, ma il perché non lo sò, sono gli ordini.
"Oh, ma allora possiamo scendere a sgranchirci un po' le gambe, vero ragazze?" pigolò Corinna tutta giuliva; e in un attimo si precipitò giù dal treno seguita dalle altre.
"Tu sali," bisbigliò passando accanto a Elsa, "ci pensiamo noi a distrarli.
Il gruppo su diresse dalla parte opposta a quella in cui si trovava Eddie, passando davanti ai soldati.
"Ma in questa stazione non c'è un ristoro?" si chiedeva a voce alta Corinna guardandosi intorno.
Era sublima nell'attirare l'attenzione, ancheggiava ostentatamente e dondolava la borsetta che aveva sfilato da tracolla. Indossava un vestito a fiori molto aderente e dei sandali con la suola di sughero.
"Il mare!" gridò, "ragazze, guardate che mare, ditemi se non è divino!"
Si appoggiò teatralmente al primo lampione e si portò una mano alla bocca facendo un'aria infantile.
"Se avessi il costume sfiderei l'autunno," disse muovendo la testa mentre la cascata di riccioli rossi le ondeggiava sulle spalle.

I due soldati la guardavano attoniti senza toglierle gli occhi di dosso. E allora Corinna ebbe un colpo di genio. Forse fu il lampione a suggerirglielo, o la necessità di risolvere una situazione che non sapeva come risolvere altrimenti. Si abbassò la camicetta fino a scoprire le spalle, si appoggiò di schiena al lampione, lasciando dondolare la borsetta, poi allargò un po' le braccia e si rivolse ad un pubblico immaginario, strizzando gli occhi come se tutto il paesaggio fosse suo complice.
"La cantano in tutto il mondo," gridò, "anche i nostri nemici!"
Si rivolse alle ragazze e batté le mani. Era sicuramente un numero dello spettacolo, perché queste si misero in fila sull'attenti, muovendo le gambe a passo di marcia ma senza spostarsi, con una mano alla fronte in un saluto militare. Corinna si teneva al lampione con una mano, e usandolo come perno gli fece un giro attorno, con un passo grazioso. La sua gonna sventolò e le scopri le gambe.

"Von der Kaserne vor dem grossen Tor, stand eine Laterne, und steht sie noch davor...so wollen wir uns da wiedersehen, bei der Laterne wollen wir steht, wie einst Lili Marleen, wie einst Lili Marleen."
Le ragazze applaudirono, un soldato fischiò. Corinna ringraziò scherzosamente con un inchino e si diresse alla fontanella accanto alla siepe. Si bagnò le tempie con un dito, guardando attentamente la strada sottostante, poi raggiunse di nuovo il predellino del vagone, seguita dalle ragazze.
"Auf wiedersehen, carini" gridò ai soldati salendo, "noi ci ritiriamo, ci aspetta la tournée."
Elsa la aspettava nel corridoio e la strinse tra le braccia.
"Oh Corinna, sei un angelo," le disse baciandola.
"Lascia stare," rispose Corinna con un sospiro, e cominciò a piangere come una bambina.

I due soldati si erano avvicinati al treno e si erano messi a guardare le ragazze, si scambiavano delle piccole frasi, uno di loro sapeva qualche parola di italiano. In quel momento si senti il rumore di un motore e un'automobile nera sbucò dal cancello del fondo, percorse tutto il marciapiede della stazione e si fermò in testa al convoglio, accanto al primo vagone.
Le ragazze si sporsero per vedere cosa stesse succedendo, ma la ferrovia faceva una leggera curva e non era facile vedere bene. eddie non si era mosso dalla panchina, apparentemente immerso nella lettura del giornale che gli nascondeva il volto.
"Che c'è, ragazze?" chiese Elsa cercando di mostrare indifferenza, mentre sistemava le sue cose sulla reticella.
"Niente," rispose una di loro, "dev'essere un pezzo grosso, ma è vestito in borghese, è salito prima."
"Ma è solo?" chiese Elsa.
"Mi pare di si" disse la ragazza, "i soldati si sono messi sull'attenti, non salgono."
Elsa si affacciò per vedere. I militari, all'altezza della locomotiva, fecero ditro-front e imboccarono la stradicciola che portava alla cittadina. Il capostazione arrivò trascinando la bandierina per terra, guardandosi le scarpe.

"Si parte," disse con filosofia come chi la sa lunga, e sventolò la bandiera. Il treno fischiò. Le ragazze tornarono a sedersi. Solo Elsa rimase al finestrino. Si era pettinata i capelli all'indietro e aveva gli occhi lucidi. Fu in quel momento che Eddie si alzò e andò sotto il finestrino.
"Addio Eddie," mormorò Elsa, e gli tese la mano.
"Ci rivediamo in un altro film?" chiese lui.
"Ma che cavolo dice!" urlò il regista dietro di lui, "che cavolo sta dicendo?"
"Fermo l'azione?" chiese il ciak.
"No," disse il regista, "tanto questo lo doppiamo."
E poi gridò nel megafono:
" Cammini, il treno si stà muovendo, aumenti l'andatura, l'accompagni lungo il marciapiede, tenga la mano di lei!"
Il treno si mise in movimento e Eddie esegui aumentando l'andatura finché poté reggergli accanto, poi il treno aumentò di velocità e si curvò per imboccare lo scambio. Lui si girò su se stesso e fece qualche passo in avanti, poi accese una sigaretta e comiciò a camminare lentamente verso la macchina da presa.

Il regista gli faceva dei segni con le mani pausando la sua andatura, come se lo stesse muovendo con fili invisibili.
"Mi faccia venire un infarto, la prego," disse con aria implorante.
"Come dice?" esclamò il regista.
"Un infarto," disse Eddie, "qui, su quella panchina. Faccio un'aria affranta, cosi, guardi, mi seggo sulla panchina e mi porto una mano al petto, come il dottor Zivago. Mi faccia morire."
Il ciak guardava il regista aspettando istruzioni per fermare la scena. Ma il regista fece un segno a forbice con le dita, per significare che avrebbe tagliato, e indicò che continuassero.
"Macché infarto," disse, "le pare di avere una faccia da infarto? Si cali di più il cappello sulla fronte, cosi, alla Eddie, sia ragionevole, non mi obblighi a rifare la scena."
Fece un cenno agli operai affinché mettessero in funzione le pompe.
"Forza," lo incitò, "sta cominciando a piovere, lei è Eddie, per favore, non un patetico innamorato....metta le mani in tasca, si stringa di più nelle spalle, cosi, bravo, venga verso di noi....sigaretta ben pendente tra le labbra...perfetto....gli occhi per terra."
Si girò verso l'operatore e gridò:
"Macchina indietro, carrellata, macchina indietro!"

venerdì 18 marzo 2011

FILASTROCCA CORTA E MATTA

Filastrocca corta corta,
il porto vuole sposare la porta,
la viola studia il violino,
il mulo dice: "Mio figlio è il mulino";
la mela dice: "Mio nonno è il melone";
il matto vuole essere un mattone,
e il più matto della terra
sapete che vuole?
Vuol fare la guerra!


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giovedì 17 marzo 2011

Un uomo chiamato a fare lo spazzino dovrebbe spazzare le strade così come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva, o Shakespeare scriveva poesie. Egli dovrebbe spazzare le strade così bene al punto che tutti gli ospiti del cielo e della terra si fermerebbero per dire che qui ha vissuto un grande spazzino che faceva bene il suo lavoro.

Martin Luther King

giovedì 3 marzo 2011

IL SERGENTE NELLA NEVE


La notte era per noi come il giorno. Camminavo sempre fuori dai camminamenti e andavo da una vedetta all'altra. Mi divertivo a camminare senza far rumore e giungere cosi alle loro spalle per vederle, confuse, chiedermi la parola d'ordine. Io rispondevo: - Ciavhad de Brexa -.
Poi parlavo loro sottovoce in bresciano, raccontavo qualche barzelletta e dicevo parole sconce. Ridevano a sentirmi, veneto come sono, parlare nel loro dialetto. Solo quando andavo da Lombardi stavo zitto. Lombardi! Non posso ricordare il suo viso senza che si rinnovi in me un fremito. Alto, taciturno, cupo. Quando lo guardavo in viso non mi sentivo di fissarlo a lungo e quando, molto di rado, sorrideva, faceva male al cuore. Sembrava facesse parte di un altro mondo e sapesse delle cose che a noi non poteva dire. Una notte, mentre mi trovavo da lui, venne una pattuglia russa, e le pallottole dei mitra sfioravano la trincea. Io, allora, abbassai il capo e guardai attraverso la feritoia. Lombardi, invece, stava ritto con tutto il petto fuori e non si muoveva di un filo. Io avevo paura per lui, sentivo di arrossire per la vergogna. Una sera, poi, durante l'attacco dei russi, venne il sergente Minelli a dirmi che Lombardi era morto con una pallottola in fronte mentre, fuori dalla trincea, ritto in piedi, sparava con un mitragliatore imbracciato. Ricordai allora com'era sempre stato taciturno e il senso di soggezione che mi dava la sua presenza. Pareva che la morte fosse già in lui.

La cosa più buffa era quando portavano davanti alla trincea i gabbioni dei reticolati. Ricordo un alpino, piccolo, sempre attivo, con la barba secca e rada, porta-arma tiratore veramente in gamba della squadra di Pintossi. Lo chiamavamo "il Duce". Bestemmiava in un modo tutto suo particolare ed era ridicolo a vedersi perché indossava un camicione bianco più lungo di lui, cosi che, camminando, questo s'impigliava sempre sotto gli scarponi scatenando una fila di bestemmie che lo sentivano anche i russi. S'impigliava spesso anche tra i gabbioni di filo spinato che portava con il suo compagno e allora neanche tirava il fiato per bestemmiare, e includeva la naia, i reticolati, la posta, gli imboscati, Mussolini, la fidanzata, i russi. Sentirlo era meglio che andare a teatro.

Venne anche il giorno di Natale. Sapevo che era il giorno di Natale perché il tenente la sera prima era venuto nella tana a dirci: - È Natale domani! - Lo sapevo anche perché dall'Italia avevo ricevuto tante cartoline di alberi e bambini. Una ragazza mi aveva mandato una cartolina in rilievo con il presepe, e la inchiodai sui pali di sostegno del bunker. Sapevamo che era Natale.
Quella mattina avevo finito di fare il solito giro delle vedette. Nella notte ero andato per tutti i posti di vedetta del caposaldo e ogni volta che trovavo fatto il cambio dicevo: - Buon Natale! Anche ai camminamenti dicevo buon Natale, anche alla neve, alla sabbia, al ghiaccio del fiume, anche al fumo che usciva dalle tane, anche ai russi, a Mussolini, a Stalin. Era mattina.
Me ne stavo nella postazione più avanzata sopra il ghiaccio del fiume e guardavo il sole che sorgeva dietro il bosco di roveri sopra le postazioni dei russi. Guardavo il fiume ghiacciato da su dove compariva dopo una curva fin giù dove scompariva in un'altra curva. Guardavo la neve e le peste di una lepre sulla neve: andavo dal nostro caposaldo a quello dei russi.
"Se potessi prendere la lepre!", pensavo.
Guardavo attorno tutte le cose e dicevo: - Buon Natale! -
Era troppo freddo star li fermo e risalendo il camminamento rientrai nella tana della mia squadra. - Buon Natale! - dissi - buon Natale! Meschini stava pestando il caffè nell'elmetto con il manico della baionetta. Bodei faceva bollire i pidocchi. Giuanin stava appollaiato nella sua nicchia vicino alla stufa. Moreschi si rammendava le calze. Quelli che avevano fatto gli ultimi turni di vedetta dormivano. C'era un odore forte li dentro: odore di caffè, di maglie e mutande sporche che bollivano con i pidocchi, e di tante altre cose.

A mezzogiorno Moreschi mand
ò per i viveri. Ma siccome quel rancio non era da Natale si decise di fare la polenta. Meschini ravvivò il fuoco, Bodei andò a lavare il pentolone in cui aveva fatto bollire i pidocchi. Tourn e io si voleva sempre stacciare la farina e, chissà dove e come, un giorno Tuorn riusci a trovare uno staccio. Ma quello che restava nello staccio, tra crusca e grano appena spezzato, era più di metà e allora si decise a maggioranza di non stacciarla più. La polenta era dura e buona.

Era il pomeriggio di Natale. Il sole cominciava ad andarsene per i fatti suoi dietro la mugila e noi si stava nella tana attorno alla stufa fumando e chiacchierando.
Venne poi dentro il cappellano del Vastone:
- Buon Natale, figlioli, buon Natale! -
E si appoggi
ò con la schiena ad un palo di sostegno.
- Sono stanco - disse - ho fatto tutti i bunker del battaglione. Quanti ce ne sono ancora dopo il vostro?
- Una squadra sola, - dissi - Dopo viene il Morbegno.
- Dite il rosario stasera e poi scrivete a casa. State allegri e sereni e scrivete a casa. Ora vado dagli altri. Arrivederci.
- Non ha neanche un pacchetto di Milit da darci, padre?
- Ah, si! Prendete. E ci butta due pacchetti di Macedonia e va fuori.
Meschini bestemmia, Bodei bestemmia, Giuanin dalla sua nicchia dice:
- Zitti, è Natale oggi! -
Meschini bestemmia ancora più fiorito: Sempre Macedonia, - dice - e mai trinciato forte o Popolari o Milit. Questa è paglia per signorine.
- Boia faus, - dice Tuorn,
- Macedonia. - Porca la mula - dice Moreschi, - Macedonia.

Poi mandai fuori la prima coppia di vedette perché era buio. Ero li che mi grattavo la schiena vicino alla stufa quando entr
ò Chizzarri a chiamarmi:
- Sergentmaggiù, - disse,- ti vogliono al telefono. È il capitano-.
Mi infilai il pastrano e presi il moschetto domandandomi cosa potessi aver fatto di male. Il telefono era nella tana del tenente.

Il tenente era fuori, forse a passeggiar lungo la riva del fiume per sentire gli starnuti delle vedette russe. Era proprio Beppo, il capitano, che mi voleva su a Valstagna, al comando di compagnia. Aveva qualcosa da dirmi. "Che sarà?" pensavo, mentre andavo su alla chiesa diroccata. Con la faccia tonda e rossa il capitano mi aspettava nella sua tana che era larga e comoda.
Aveva il cappello sulle ventitre con la penna dritta come un coscritto, le mani in tasca.
- Buon Natale! - disse.
E poi mi tese la mano e poi un bicchiere di latta con dentro cognac. Mi chiese come andava al mio paese e come al caposaldo. Mi cacci
ò tra le braccia un fiasco di vino e due pacchi di pasta.

Ritornai nella mia tana saltando fra la neve come un leprotto a primavera. Nella furia scivolai e caddi ma non ruppi il fiasco né mollai la pasta. Bisogna saper cadere. Una volta sono scivolato sul ghiaccio con quattro gavette di vino e non versai una goccia: io ero giù per terra ma le gavette le avevo salde in mano con le braccia tese a livello. Ma era successo in Italia di avere quattro gavette di vino, al corso sciatori.

Quando arrivai al caposaldo le vedette mi diedero l'alt-chi-va-là-parola-d'ordine e gridai, forte che mi sentirono anche i russi:
- Pastasciutta e vino!
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martedì 1 marzo 2011

SENZA SANGUE

Nina continuò per un po' a ripetersi quel nome. Scivolava via senza spigoli, come una biglia di vetro. Su un vassoio inclinato. Si voltò a guardare la sua borsa, posata su una sedia, vicino alla porta. Pensò di andarla a prendere, ma non lo fece e rimase sdraiata, sul letto. Pensò al chiosco dei biglietti, al cameriere del caffè, al taxi con i sedili ricoperti di cellophane. Rivide Pedro Cantos che piangeva, le mani sprofondate nelle tasche del soprabito. Lo rivide mentre la accarezzava senza il coraggio di respirare. Non dimenticherò questo giorno, si disse. Poi si girò, si avvicinò a Pedro Cantos, e fece quello per cui aveva vissuto. Si rannicchiò alle sue spalle: tirò su le ginocchia verso il petto: allineò i piedi fino a sentire le gambe perfettamente appaiate, le due cosce morbidamente unite, le ginocchia come due tazze in bilico una sull'altra, le caviglie separate da un nulla: si strinse un po' tra le spalle e fece scivolare le mani, unite, in mezzo alle gambe. Si guardò. Vide una vecchia bambina. Sorrise. Guscio e animale. Allora pensò che per quanto la vita sia incomprensibile, probabilmente noi la attraversiamo con l'unico desiderio di ritornare all'inferno che ci ha generati, e di abitarvi al fianco di chi, una volta, da quell'inferno, ci ha salvato. Provò a chiedersi da dove venisse quell'assurda fedeltà all'orrore, ma scopri di non avere risposte. Capiva solo che nulla è più forte di quell'istinto a tornare dove ci hanno spezzato, e a replicare quell'istante per anni. Solo pensando che chi ci ha salvati una volta, lo possa poi fare per sempre. In un lungo inferno identico a quello da cui veniamo. Ma d'improvviso clemente. E senza sangue. L'insegna sgranava da fuori il suo rosario di luci rosse. Sembravano i bagliori di una casa in fiamme. Nina appoggiò la fronte alla schiena di Pedro Cantos. Chiuse gli occhi e si addormentò.