mercoledì 9 febbraio 2011

TRE CAVALLI



Argentina è un triangolo rettangolo che ha per cateto grande le Ande a occidente, per minore il cateto irregolare dei fiumi a nord e per smangiata ipotenusa l'Oceano Atlantico a est.

Argentina è lunghezza di tremilasettecento chilometri, tra ventuno e cinquantatre gradi di latitudine sud. L'ultimo zoccolo d'America, condiviso con il Cile, sta a soli dieci gradi dalla terra di Graham, corno del continente Antartide.


Argentina ha accolto quasi sette milioni di emigranti fino al 1939. Circa la metà erano italiani.
Dal 1976 al 1982 Argentina ha scontato una dittatura militare che ha prosciugato una generazione. Al termine mancheranno all'anagrafe circa quarantamila persone quasi tutte giovani, senza una tomba.

La dittatura collassa dopo la fallimentare invasione delle isole Falkland/Malvinas, circa mezza Sicilia, a più di trecento chilometri dalla costa. È la primavera del 1982.
Queste immensità di luoghi e di vicende riguardano accidenti accorsi a persone di questa storia.


Leggo solo libri usati.
Li appoggio al cestino del pane, giro pagina con un dito e quella resta ferma. Cosi mastico e leggo.
I libri nuovi sono petulanti, i fogli non stanno quieti a farsi girare, resistono e bisogna spingere per tenerli giù. I libri usati hanno le costole allentate, le pagine passano lette senza tornare a sollevarsi.
Cosi alla trattoria di mezzogiorno mi siedo alla stessa sedia, chiedo minestra e vino e leggo.
Sono romanzi di mare, avventure di montagna, niente storie di città, che già le ho intorno.
Alzo gli occhi per un po' di sole riflesso nel vetro della porta d'ingresso da dove entrano in due, lei con aria di vento addosso, lui con aria di cenere.
Torno al libro di mare: c'è un po' di burrasca, forza otto, il giovane sta mangiando di gusto mentre gli altri vomitano. Poi esce sul ponte a reggersi forte perché è giovane, solo e allegro di burrasca.
Stacco gli occhi per spezzare un po' di aglio crudo sulla minestra. Assorbo un piccolo sorso di rosso aspro, legnoso.
Giro pagine docili, bocconi lenti, poi stacco la testa dal bianco di carta e di tovaglia e seguo la linea delle mattonelle di rivestimento che gira per la stanza e passa dietro due pupille nere di donna, messe su quella linea come due "mi" spaccati dal rigo basso del pentagramma. Stanno dritti su di me.
Alzo allo stesso punto il bicchiere e lo lascio sospeso prima di berlo. L'allineamento mi spinge a un principio di sorriso agli zigomi. La geometria delle cose intorno fa succedere coincidenze, incontri.
La donna sorride frontale.
L'uomo di schiena intercetta il brindisi, torce il busto, dà precedenza al gomito, l'oste lo schiva con un giro d'anca mentre mi porta il piatto. Prima che l'energico termini il suo mezzo giro mi raschio in gola un saluto alla donna, come se conoscente. Lei risponde uguale mentre lui mi mette a fuoco.
Intanto bevo, rimetto naso al piatto, tra leggere e inghiottire.
L'osteria si svuota di operai, io resto di più, non ho da riattaccare all'ora.
Oggi devo finire le potature e ammassarle. Domani le brucio.
La donna si alza, avanza e s'avvicina al mio posto svelta e schietta.
Unisco gli occhi a guardare dritto nel suo naso, dove le narici soffiano un poco d'aria dietro le sue parole: "Ho cambiato numero, chiamami a questo" e mi lascia sulla tovaglia un nome e una cifra. Ci metto sopra la mano. È quasi pulita, non sto a strigliarmi per la pausa di mezzogiorno.
La guardo che sta in piedi, mi alzo e per pareggiare la sua improvvisata dico: "Sempre mi fa piacere di vederti". Mette due mani intorno alla mia, "Saluti a casa", "graziepresenterò", l'altro è sull'uscio, lei si volta e io mi rimetto giù.
Che accidenti mi piglia, graziepresenter
ò
, da imbalsamato vivo: a chi? Tengo nessuno.